Questo pezzo lo avevo scritto tempo fa (settembre 2016) dopo aver visto giocare l’Inter e la Roma. Avevano fatto più o meno schifo, non tanto per il risultato, ma per l’atteggiamento in campo. Il calcio è anche la “paura di vincere”, ma va affrontata. Giocare è una roba seria. Quello che non andava nell’Inter e nella Roma credo che fosse, prima di tutto, una roba che avesse a che fare con il carattere, l’esperienza e la stabilità emotiva. Gli psicologi la chiamano, appunto, “paura di vincere”. Paura che, prima o poi, viene a tutti.

Prendi un atleta, fissalo negli occhi prima delle gare: cosa sta pensando? Chi sta scrutando? Il suo maestro/mentore? La paura di vincere è lì, nascosta tra i sorrisi nervosi e fuori tempo, nelle pieghe del loro cervello.

Io stesso ho perso incontri già vinti, tra la gioia dei parenti degli avversari e lo sgomento dei diretti interessati. A voi non è mai capitato? Ho visto i miei Maestri “a bordo campo” con le mani nei capelli, che non riuscivano a spiegarsi l’inaspettato e improvviso scarso rendimento del loro pupillo. E più se la prendevano con gli “arbitri”, e più ci stavo male, perché in fondo lo sapevo che la colpa di quello che stava accadendo era solo mia. Il “ritmo della gara” mi scivolava addosso.

La paura di vincere è un paradosso: lo scopo dello sport agonistico è soprattutto vincere, giusto? Oppure lo scopo è un altro? Come si innesca quel meccanismo inconscio che porta a non vincere? Quante volte abbiamo assistito ad ottime prestazioni nei gironi di qualificazione, con vittorie a mani basse, giocate brillanti, nella consapevolezza che una singola partita la si può pure perdere senza pregiudicare gravemente la successiva? Ma al primo scontro diretto, flop. C’è chi ha provato a dare una spiegazione a tutto questo.

Una, in stile freudiano, ci viene servita da alcuni stimati psicologi dello sport come Antonelli: “per vincere bisogna avere una certa dose di aggressività ma, se l’atleta è cresciuto in un ambiente che inibiva l’aggressività e soprattutto se uno dei genitori ha sempre criticato ogni atteggiamento aggressivo nell’atleta bambino, è probabile che l’atleta, divenuto adulto (ma a livello inconscio si è sempre bambini atterriti dall’autorità paterna), senta una propria affermazione agonistica come una disubbidienza, a causa di quell’aggressività che dovrebbe tirare fuori. Il vincere verrebbe a coincidere con il disubbidire e rappresenterebbe per il padre/madre una colpa”. Oppure, opzione B, l’atleta sembra grande al Maestro, ai tecnici, ai suoi compagni, alla suo partner, ma in realtà lui, lui non si percepisce come tale, e finisce per vivere in un rimando continuo: la grande gara arriverà, la partita della vita è dietro l’angolo. C’è sempre una scusa valida per rinviare il grande momento.

Se per alcuni di noi i sogni migliori sono quelli che non si realizzano, anche per le vittorie è così? Non so. Forse. No, non credo. Il problema è che la vittoria significa essere davanti alla verità: e se poi fallisco? Se, come diceva Marty in Ritorno al Futuro, “se poi mi dicono che non va bene? Sento che non potrei sopportarlo”. Meglio guadagnare tempo, meglio rimandare. Intanto il tempo passa e la grande speranza resta tale per tutta la vita. La grande promessa che non sboccia, un classico. Invecchiare aspettando di godere, invecchiare aspettando Godot, e perdonate l’associazione di parole.

Soluzione? Per Michael Jordan, la soluzione è sbagliare: “Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento partite, ventisei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto”.

E se poi arriva il successo inaspettato? La vittoria contro ogni previsione, la vittoria che sorprende tutti, compreso te stesso. Dopo una vittoria del genere, non c’è ugualmente scampo, meglio chiudersi in se stessi, evitare di mettersi alla prova per paura di deludere. Gli avversari saranno sempre troppo forti, insuperabili, se non si ha ancora la piena consapevolezza delle proprie capacità.

Dov’è il mio Maestro? Ho bisogno di qualcuno che mi trasmetta la tranquillità necessaria per giocare, se sto vincendo o perdendo non ha importanza, non devo avere paura di fare quello che amo fare. Eppure. La paura di vincere è un fatto complesso e spaventa perché irrazionale e apparentemente incomprensibile, su questo siamo tutti d’accordo. Ma se non fosse così?

La paura di vincere è un fattore umano; in fondo, non c’è niente di incomprensibile nell’esistenza umana. Non è forse questa la vera poesia? La “paura di vincere” è un senso di colpa, aggiungere altre colpe è la cosa più sbagliata e miserevole che si possa fare; oltretutto, non risolve nulla. Se pensiamo che questo aspetto della vita di un atleta è un aspetto comune a tutti gli esseri umani, la soluzione non può essere smettere di giocare/vivere. Se stai perdendo, ma sei bravo, non tirarti indietro. Come diceva Jorge Gonzalez, uno che ne sapeva a pacchi: “Questo è il calcio. Rimediare agli istanti in cui sembra tutto perduto”.

C’è un dialogo di un film che mi viene in mente in questo momento. Un film ispirato a una storia realmente accaduta. Un film che non mi piace. Non credo neanche di averlo visto tutto. Mi sarò addormentato o avrò guardato fuori dalla finestra con l’aria di chi non riesce più a sopportare tutto questo. La quotidianità, che è la roba più assurda da affrontare. Avrò preferito guardare fuori e chiudermi nei chiusini. È un dialogo che viene a soccorrermi perché a questo punto dovrei dirla tutta, tirare fuori la mia esperienza personale, rendermi ridicolo insomma. Un dialogo che è un misto di frasi prese qua e là e messe insieme da quegli sceneggiatori americani che fanno quello per cui sono pagati, né più né meno. Ma in fondo, potrebbe essere tutto vero. In fondo, se il pozzo è profondo, lo si può accettare.

Dal film Coach Carter di Thomas Carter: “La nostra più grande paura non è quella di essere inadeguati. La nostra più grande paura è quella di essere potenti al di là di ogni misura. È la nostra luce, non la nostra oscurità che più ci spaventa. Agire da piccolo uomo non aiuta il mondo, non c’è nulla di illuminante nel rinchiudersi in se stessi così che le persone intorno a noi si sentiranno insicure. Noi siamo nati per rendere manifesta la gloria che c’è dentro di noi, non è solo in alcuni di noi è in tutti noi. Se noi lasciamo la nostra luce splendere inconsciamente diamo alle altre persone il permesso di fare lo stesso. Appena ci liberiamo dalla nostra paura la nostra presenza automaticamente libera gli altri”.

Come vi sentite adesso? Meglio?