Quando abbiamo scritto questo articolo, ci siamo immaginati una colonna sonora; un esperimento di meta-narrazione, tra calcio, musica e video.
Quindi indossa le cuffie, fai partire la playlist di Spotify e goditi la storia!

“I pazzi aprono le vie che domani percorreranno i savi” – Carlo Dossi

27 aprile 2000, Stazione di Siracusa
Giuseppe Incatasciato il 27 aprile del 2000 ha 23 anni e di professione fa il geometra.
Figlio di un ex trapezista del Circo Orfei, dal padre pare aver ereditato una gran faccia da culo, una forte considerazione di se stesso e una coordinazione di base sopra la media.
L’hanno visto l’ultima volta infilarsi su un treno con una borsa di tela rossa, alla stazione di Siracusa, e se quella del treno che passa potrebbe tranquillamente essere una metafora della vita, salendo sul vagone Giuseppe deve aver pensato che la sua è proprio una vita del cazzo.
Respirando a pieni polmoni la puzza nauseabonda di merda, sudore e piscio, Giuseppe prende il suo posto sull’Intercity per Parma, si toglie le scarpe, appoggia i piedi sul sedile davanti e infila nel mangiacassette SONY Yes, I know my way di Pino Daniele.
Sì, conosco la mia strada.
Rimane così per un po’, sprofondato nel sedile di pelle e cullato dal blues, poi chiude gli occhi e si abbandona ad un sonno senza sogni.

28 aprile 2000, Centro Sportivo di Collecchio (PR)
Davide Micillo ed Hernàn Crespo sono i primi a presentarsi al campo e fanno appena in tempo ad evitare una piccola folla di curiosi e giornalisti che si è già accalcata contro i cancelli d’ingresso.
L’argentino sorride, scende dalla macchina e si gira verso il terzo portiere, un omaccione di più di un metro e novanta con la faccia da bambino, si punta l’indice alla tempia e comincia a farlo girare. —Esto es loco— Questo è pazzo, dice Valdanito.
Micillo si limita a scuotere la testa, si carica il borsone in spalla e si avvia verso lo spogliatoio.
Il Parma quell’anno è ancora una delle Sette Sorelle del Calcio italiano; partita con grandi aspettative per contendere il titolo alla Juventus—che poi verrà vinto dalla Lazio anche grazie al nubifragio di Perugia—ad aprile è in corsa per un posto in Europa.

“Abbiamo la squadra più forte in Italia” – Callisto Tanzi, presidente del Parma

In rosa ci sono nomi altisonanti e giovani di grandi prospettive: Buffon, Thuram e Cannavaro, tanto per dirne alcuni, ma anche il già citato Crespo e gente del calibro di Ortega(sic!), Dino Baggio, Marcio Amoroso e Mario Stanic. L’allenatore è Alberto Malesani, che l’anno prima aveva portato a casa la Coppa UEFA proprio con i gialloblu; impresa che qualche anno dopo lui ricorderà ancora come l’ultima vittoria di un allenatore italiano in una competizione continentale.

Malesani quel giorno è incazzato nero.
La squadra sta ottenendo risultati altalenanti ed è reduce dallo 0-0 con la Roma. La domenica successiva avrebbe affrontato l’Udinese, in ottime condizioni di forma.
I ragazzi, però, sembrano distratti da qualcosa che col campo c’entra poco.
In un angolo, Diego Fuser e Stefano Torrisi, due veterani, sono intenti a parlottare durante una sessione di stretching.
—Si può sapere cosa cazo sta succedendo, qui?— fa Malesani.
Fuser, con il piglio deciso di chi non teme l’autorità, si incammina verso la panchina, raccoglie un mazzo di fogli formato A5 e li porge al suo allenatore.
—Arriva da Siracusa e questi se li è stampati da solo. Sta qui fuori da stamattina a palleggiare, dice che è un fenomeno e vuole fare un provino. I giornalisti provano ad intervistarlo, vogliono capire cosa pensa di fare. Lo hanno già ribattezzato Il Palleggiatore di Collecchio.
29 aprile 2000, Milano
La redazione sportiva de La Repubblica è in fermento.
Ronaldo sembra sul punto di recuperare dal brutto infortunio che lo ha tenuto lontano dal campo per quasi 7 mesi e in allenamento, giovedì, è tornato a segnare alla sua maniera. Questa.

In casa Juve ci sono un po’ di malumori. Del Piero non è al top della condizione e Inzaghi—che sta giocando poco per lasciare spazio al croato Kovacevic—minaccia di andarsene a fine stagione. In tutto questo, mancano 2 giornate e la squadra sta lentamente ma inesorabilmente dilapidando i 9 punti di vantaggio che ha accumulato sulla Lazio. Nella partitella del giovedì, Montero entra senza troppi convenevoli su Henry, un ragazzino francese arrivato a Torino con grandi aspettative, fino a quel momento ectoplasmatico.
Ma ad attirare l’attenzione di Emilio Marrese, collaboratore in visita da Bologna, è un volantino. Sembra l’invito ad una festa di compleanno, stampato in malo modo su carta colorata, che recita più o meno così:

“Sono il nuovo talento del calcio italiano e non me ne vado di qui finché non mi fanno un provino”

— E questo?— chiede, al collega di Milano
– Arriva da Parma, pare ci sia un pazzo incatenato da stamattina fuori dai cancelli del campo di allenamento. Dice di essere un fenomeno e vuole un provino, chi lo ha visto palleggiare dice che ci sa fare. A me sembra mezzo scemo. È di Siracusa, si chiama Incatasciato.—
Mentre la radio passa una canzone di una moretta Australiana, Emilio abbozza un saluto, prende di corsa il soprabito e si catapulta al parcheggio dei dipendenti. Ha appena deciso di tornare in Emilia.

1 maggio 2000, Parma
Marco Osio, nella vita, ci ha sempre visto lungo.
Trequartista dal talento cristallino, non ha mai scelto la strada più facile, semplicemente quella più divertente.
Idolo a Parma nell’era Sacchi, soprannominato Il Sindaco, è stato un girovago del calcio. In Emilia ha esportato giocate impensabili, scarsissima propensione a dire quello che la gente si aspettava di sentirsi dire e tantissima indisciplina tattica. Un giocatore così fuori dagli schemi non può che essere un visionario e i visionari, per definizione, sanno fiutare la magìa prima degli altri.
Appena saputa la notizia che Il Palleggiatore è arrivato in città, non ci pensa due volte. Tira fuori dalla tasca lo Star Tac e chiama il suo presidente.
—Pronto…–
—Voglio sfidare il ragazzo ad una gara di palleggi.—
—Osio, tu sei coglione.—
—Pres, questo lo prendiamo a fare il provino, organizziamo la sfida, chiamiamo 50 giornalisti al campo e se abbiamo anche culo e per caso qualcosina ci azzecca, ce lo mettiamo in squadra con la coda di sponsor fuori dalla porta.—
—…—
—Fidati, pres. Ho chiamato Nèstor (Sensini, ndr), mi ha detto che è bravo. Gli ha visto fare cose pazzesche. Dammi retta, non abbiamo nulla da perdere.—
—Va bene, ma se viene fuori che è una chiavica ti taglio il rimborso.—
Clic.
Nemmeno il tempo di chiudere la telefonata che il Sindaco è già in strada, direzione Collecchio.
1 maggio 2000, Centro Sportivo di Collecchio (PR)
Giuseppe è sveglio dall’alba.
Da tre giorni dorme su un’aiuola fuori dal campo sportivo, fasciato in un sacco a pelo striminzito. Il ragazzo è robusto, ha le spalle larghe ed è agile come un gatto. Lo sguardo non è molto sveglio, ma lui se ne fotte, perché gliel’ha forgiato la strada, la vita di Circo.
Il Circo lo ha aiutato molto, ad essere quello che è oggi. Passava le giornate con i giocolieri e i trapezisti, ad allenarsi, anche se suo padre non voleva farlo esibire. Persino Moira Orfei in persona aveva chiesto al suo babbo di buttarlo in pista, una volta. Pensava avesse un grande talento, poi quelle cose col pallone le aveva viste fare solo da lui. Palleggiava, palleggiava ovunque e con qualsiasi cosa. Arance, palline da tennis, pacchetti di sigarette. Si metteva sopra al piedistallo dei giocolieri e si esibiva, da solo, sotto l’occhio di bue.
Al pomeriggio invece usciva per le strade di Siracusa, sempre con la palla nei piedi, per giocare contro i ragazzi più grandi. Li sceglieva apposta, alti e grossi, perché niente al mondo gli dava soddisfazione come vedere la loro faccia quando li lasciava lì, sul posto, con un tunnel, un sombrero, una giocata che nessuno aveva mai visto prima. Lui 12 anni, loro 20, 25, 30.
Li sfidava tutti, non lo fermava nessuno.
Un giorno, dopo aver finito la scuola per geometri e aver provato qualsiasi lavoro, si è deciso.
È passato dalla tabaccheria del paese, ha comprato un pacchetto di Camel, un pallone arancione modello “Olanda”, un biglietto per Parma e ha portato via i coglioni.

“Non ho mai giocato in una squadra ma mi sono allenato in Promozione ed ero il più forte. A 12 anni giocavo con quelli di 30 e non ce n’era per nessuno. Sembro presuntuoso, lo so, ma conosco le mie qualità.” — Giuseppe Incatasciato

Ormai tutti sanno che è lì. Ci sono giornalisti che vogliono intervistarlo, curiosi che vorrebbero farsi una foto con Il Palleggiatore. Lui non chiede niente, vuole solo la sua possibilità. Passa la giornata a testa china, a palleggiare, sperando che da un momento all’altro dal cancello del campo esca qualcuno con la divisa del Parma a dirgli “va bene, sei dei nostri”.
Emilio Marrese è un giornalista di Repubblica dal 1987. Bolognese, collabora ormai da anni come inviato dall’Emilia e ha un debole per Gianfranco Zola.
Quando si avvicina a Giuseppe, la prima cosa che vorrebbe chiedergli è “Ma come cazzo ti è venuto in mente?”.
Invece, come al solito, ne racconta le gesta con un certo, disincantato aplomb. Non gli è mai piaciuto speculare sui fenomeni da baraccone e questo ragazzo ha tutta l’aria di volerlo diventare.
Emilio ha qualche anno in più di Giuseppe, ma messi uno a fianco all’altro nello stesso lembo di prato sembrano le due cose più distanti dell’intero Sistema Solare.
Più in là, Out of this World dei Cure rimbomba fuori dalle casse della grande berlina nera di Marco Osio.

“Quando guarderemo indietro a tutto questo, ci ricorderemo come ci si sente ad essere così vivi? Un’ultima volta prima che sia finita, un’ultima volta prima che sia tempo di andare” – Out of this World, The Cure


3 maggio 2000, Stazione di Parma
Giuseppe ha la barba sfatta, la stessa maglietta di quando è arrivato e l’inseparabile borsa di tela rossa sulla spalla destra.
Gli occhi sono quelli di un bimbo a cui hanno promesso Gardaland ed invece è stato scaricato nel cubo di palline del McDonald’s di Limbiate.
Non lo direbbe mai, ma forse sta iniziando a scendergli qualche lacrima. Di rabbia e di delusione.
L’uscita di scena è veloce e silenziosa, tutto il contrario dell’arrivo: interminabile e sotto la luce dei riflettori.
Paga di fretta un caffè e una brioche al bar della stazione, con una banconota da 50.000 Lire che un signore in giacca e cravatta gli ha lasciato prima di andarsene, sperando che bastasse a convincerlo a fermarsi qualche giorno in più.
Lui nemmeno li voleva, i soldi. Si sarebbe esibito anche gratis, almeno per cominciare, ma se proprio doveva iniziare così la sua carriera da calciatore, avrebbe voluto che fosse un inizio col botto.
Quel tizio, invece, gli aveva proposto un provino per una squadra di Serie D. Quel tizio era Marco Osio.
– Ti fermi da noi qualche giorno, vogliamo vedere se sei davvero bravo come dici. Nel frattempo, mettiamo su una scenetta per i giornalisti. Io che ti sfido ad una gara di palleggi. Se tutto va bene, ti prendiamo a giocare e vedrai che nel giro di qualche mese ti troveremo un posto nel Parma. Per adesso, se e quando supererai il provino, sono ottocentomila al mese, più vitto e alloggio. Che ne pensi?–
Ripensandoci, la proposta non era così male, ma alla fine hanno prevalso l’orgoglio, la faccia da culo e la pazzia.
Gli aveva detto che si sarebbe preso la notte per pensarci; quella notte, invece, ha buttato in fretta i vestiti nel borsone ed è scappato, come un ladro.
Scusi ha da accendere?
L’occhio gli cade su un titolo de La Repubblica, aperta alla pagina dello Sport Locale.
Ha da accendere? Scusi?
Niente provino col Parma. Finisce il sogno del funambolico palleggiatore.
PARMA. «Sono stato preso in giro, adesso me ne ritorno a casa». Con queste parole Giuseppe Incatasciato, il ventitreenne siracusano che per diversi giorni ha stazionato palleggiando davanti al centro d’allenamento del Parma a Collecchio chiedendo un provino con la squadra gialloblù, ha rifiutato di sostenere analogo test con i Crociati Parma, squadra che milita nel Campionato nazionale dilettanti. Il provino era già stato fissato per le 18,30 e Marco Osio, glorioso ex gialloblù e attualmente militante nei Crociati, era disposto a sfidare Incatasciato in una gara di palleggio sotto gli occhi di una telecamera. Ma il giovane, ai dirigenti che erano venuti a prelevarlo a Collecchio per accompagnarlo in auto al campo d’allenamento dei Crociati, ha fatto sapere di aver declinato l’offerta.

Stronzi, tenetevi i vostri provini del cazzo.
Mi scusi, signore. Ha da accendere?
Una voce di donna lo riporta alla realtà.
È bionda, bellissima, e ha un viso vagamente familiare.
— Certo, certo. Ecco. –
Giuseppe si accorge di puzzare come un caprone e la sua mano destra, quella che porge l’accendino all’angelo biondo che si trova di fronte, è lercia da fare schifo.
Quanti giorni è che non si fa una doccia? Tre, quattro? Improvvisamente nulla ha più senso.
— Dove sta andando lei? — fa la ragazza
— Torno a Siracusa, a casa. Qui non c’è posto per quelli come me. —
— E come sarebbero, di preciso, quelli come lei?  Ma lei è il ragazzo nella foto? Il Palleggiatore di Collecchio?—
Il treno per Siracusa è pronto a partire sul binario 11.
Giuseppe dà un ultimo tiro di sigaretta, si alza dal tavolino del bar e calcia distante la palla di gomma arancione.
– Io sono Giuseppe Incatasciato. Pazzo, visionario, viaggiatore. Passeggero della mia stessa vita. —

Disclaimer: la storia è vera, nella maggior parte del suo intreccio. Giuseppe Incatasciato esiste davvero, e probabilmente adesso è tornato a fare il geometra, come vent’anni fa. Di lui non si ha traccia tra le memorie sportive dell’internet, e tutto quello che ci è rimasto sono un paio di articoli di quei confusi ed incredibili giorni e il ricordo di chi lo ha visto esibirsi dal vivo.
Il resto è romanzo, se non leggenda.
Ma, d’altronde, a noi il calcio piace proprio perché è così. Una storia senza fine.
 
Articolo in collaborazione con Cronache di Spogliatoio