«L’hai mai lavata quella sciarpa?». «Assolutamente no, dal 1984 la indosso per tutte le partite del Milan ma non l’ho mai lavata». Bordi Rossoneri e fascia centrale bianca con scritta nera: HATELEY. «Ma chi è Hateley?», domanda un ragazzino appena qualche fila più avanti. «Come chi è Hateley? Mark Hateley è…», ci interrompe un giovanotto con tono saccente: «Sei proprio ignorante, è il cantante degli Oasis!». «Ah, è vero, è che non sapevo il nome!».
E’ un segno dei tempi che cambiano, s’inizia con una sparuta rimanenza che si ricorda il coro per Van Basten, gli ultimi tre o quattro che cantano quello per Pietro Paolo, e si finisce con Mark Hateley che diventa una Rockstar.
«A come atrocità, doppia T come terremoto e traggedia, I come ir’ di Dio, L come Laco di sancue, A come adesso vengo e ti spacco le corna!»
E’ il 28 ottobre 1984, il Milan è appaiato all’Inter al terzo posto della classifica, non vince la Stracittadina dall’anno della Stella, arriva da due stagioni non consecutive in Serie B e il Presidente-agricoltore Giussy Farina affitta Milanello per banchetti di nozze nel tentativo di far quadrare i conti. Altobelli prende palla e tenta di far ripartire l’azione nerazzurra ma viene prontamente fermato da un intervento deciso di Franco Baresi che, dopo aver recuperato palla, serve Pietro Paolo Virdis, il quale, giunto sul fondo, serve a centro area un cross sul quale si avventa Mark Hateley. Lo stacco dell’attaccante inglese appena arrivato al Milan è rapido e imperioso, tanto da permettergli di anticipare Collovati, il traditore che qualche anno prima accettò il trasferimento all’Inter per evitare la Serie B, e di insaccare alle spalle di Walter Zenga. 2 a 1, ha vinto il Milan!
«A come atrocità, doppia T come terremoto e traggedia, I come ir’ di Dio, L come Laco di sancue, A come adesso vengo e ti spacco le corna!». Attila, così fu ribattezzato dai tifosi Casciavit, sulla eco del recente successo di Abatantuono. Mark Hateley, classico centravanti britannico, che quell’estate era arrivato al Milan tra lo scetticismo generale, accompagnato da Ray Wilkins: «Due rare e raffinatissime spezie inglesi in un piatto Divino», così li definì un Ugo Tognazzi palesemente euforico dopo quel Derby.
Prima Joe Jordan, scozzese, detto Lo Squalo per la dentatura; poi Luther Blisset, anglo-giamaicano detto Miss It per la puntualità con cui sbagliava anche i gol più semplici, non erano certo due biglietti da visita entusiasmanti per la pesca britannica di un Presidente scalcagnato, ma quel gol nel Derby aveva acceso le speranze del Popolo Rossonero che, mentre le altre squadre acquistavano Maradona, Platini, Zico, Socrates, si era visto recapitare un giovanotto inglese con il mullet – e noi che oggi ci lamentiamo della cresta! -, molta spocchia, ben poca tecnica palla a terra, ma ottime referenze: «Mark è un Grande, davvero, e, un giorno, credetemi, la sua fama sorpasserà la mia. I difensori italiani sono bravi ma contro i centravanti britannici come me e Hateley l’astuzia non basta. Con il suo talento sarebbe esploso anche in Inghilterra, ma al Milan ha trovato la via più breve per il successo», parola di John Charles.
Quel gol nel Derby aveva decisamente acceso la speranza: «Mi ha sbalordito», affermarono Franco Baresi e Mauro Tassotti, mentre il Barone gongolante si assumeva i propri meriti: «Ha già imparato molto in fatto di tecnica, anche se può e deve fare ancora meglio. Il risultato, però, è sotto gli occhi di tutti».
Purtroppo fu solo una piccola grande illusione, un misto di convinzione poetica e romantico onirismo, che presto svanì. Durante Torino-Milan, infatti, Attila s’infortunò gravemente a un ginocchio e, quando rientrò, pur continuando a lottare per la squadra, non fu più lo stesso. Sempre generoso e battagliero durante i novanta minuti, nei due anni successivi, però, non fu più in grado di ripetere le sue progressioni devastanti, né i gol epici come la rete che consegnò quel Derby emozionante al Milan o la segnatura del 2 a 0 alla Lokomotiv Lipsia, dopo la quale si appese alla traversa, imitato, circa un decennio dopo, da Paul Gazza Gascoigne.
Attila, grazie a quel 28 Ottobre, alla sua combattività e a quel gesto romantico, fece breccia nel Cuore del popolo rossonero che gli perdonò parecchi errori, sia sul campo che fuori, come l’andare a sciare al Sestriere venti giorni dopo l’operazione al menisco, oppure dichiarazioni come: «Una volta a Milanello, Berlusconi ci confessò uno ad uno. Io ero giovane, ma figlio di un calciatore e ne sapevo abbastanza per comprendere che quell’uomo di football capiva poco. Voleva fare l’allenatore, voleva fare tutto. Aveva deciso di sostituirmi con Van Basten e Gullit, così mi mise da parte ma non mi fece nemmeno andare alla Roma». Dopo tre anni e 17 gol con la maglia del Milan, Mark Hateley, la penultima giornata di campionato, contro il Como, salutò la Curva con uno striscione: «Grazie a tutti. I love You Milan. Mark Hateley», al quale tutto il tifo milanista rispose con un applauso commovente perché, pur non essendo un grandissimo, Attila, aveva sempre dimostrato attaccamento alla maglia e questo è sufficiente per essere amati e ricordati, o almeno dovrebbe.
Partì per Monaco, dove vinse la Ligue 1, poi si trasferì a Glasgow, sponda Rangers, dove vinse 5 campionati, 3 Coppe di Lega e 2 coppe di Scozia, poi fu la volta del QPR, del Leeds, dell’Hull City, come allenatore giocatore, e del Ross County, dove chiuse la propria carriera per dedicarsi al giornalismo sportivo.
Mark Wayne Hateley sicuramente non è stato il più grande, forse non è stato nemmeno un campione, ma per quel gol e per quella sua irruente generosità si merita di essere ricordato anche dai ragazzini, come qualsiasi Rockstar che si rispetti, anche se ora van di moda la creste e non più il mullet.