Era Angelo di nome, poi divenne Angelo di fatto. Un Angelo sceso dal cielo per donare, grazie a gol miracolosi, le due storiche, indimenticabili, vittorie che fecero l’impresa trasformando l’Unione Sportiva Catanzaro, nella “Stella del Sud anni’70”.

Angelo Mammì, piccolo di statura (non superava il metro e 68 cm), semi sconosciuto centravanti di provincia era nato a Reggio Calabria, il 17 marzo del 1943 quando ormai il conflitto mondiale per l’Italia aveva preso una brutta piega. Carriera sportiva e agonistica partita nel 1962, dalla Serie D, nel Locri. Quindi, nel 1966, dopo aver giocato con Nocerina e Internapoli, il trasferimento al Lecce, in Serie C fino al 1970, ove collezionò 102 presenze e 25 reti. Poca roba per riciclarsi centrattacco di sfondamento con la dinamite al piede. Acquistato, a modico prezzo, dal presidente catanzarese Nicola Ceravolo, fu assegnato “in dono” al mister Gianni Seghedoni, perché lo trasformasse nella punta di diamante del team dove il catenaccio era il credo assoluto e “primo: non prenderle” era la parola d’ordine. Mammì, calabrese dal carattere chiuso e introverso, fece quel che poté, in una formazione destinata alla tattica del contropiede tanto che di gol risolutivi ne segno nove e pure di buona fattura. Fu così che al termine della stagione 1970-71 il Catanzaro pur vincendo 17 incontri, pareggiandone 13 e perdendone 8 (record già colto nel ’66-67) si ritrovò – in classifica finale – a pari punti col Bari e l’Atalanta, mentre il Mantova, primo assoluto, acquisì sul campo e anzitempo, la meritata promozione. La Lega Calcio, per assegnare le due restanti promozioni, dispose la disputa di spareggi con un mini-torneo all’italiana. L’Atalanta si aggiudicò la prima gara travolgendo il Bari (2-0) e successivamente i giallorossi a Bologna (1-0). E fu così che per Catanzaro e Bari, “regine del Sud”, la terza ed ultima partita, a Napoli, sul campo neutro del San Paolo si tramutò di colpo nella finalissima.

“I presenti lo videro pulcino Calimero, farsi ancor più piccoletto, accartocciarsi sul pallone, saettare e saltare, come birilli, i giganti della difesa pugliese, fino a riuscire a calibrare un finto e sbilanciato traversone”

Era il 27 giugno del 1971. Cinquemila supporters calabresi si riversarono all’ombra del Vesuvio utilizzando pullman, auto private e persino i vagoni di un intero treno speciale. La rappresentanza barese più folta e numerosa (a dir poco il doppio) orchestrò un tifo infernale lasciando poco spazio all’effervescenza della fantasiosa platea calabrese. Il tema tattico dell’incontro fu subito evidente sin dal fischio d’inizio: il Bari scatenato e proteso all’attacco e il Catanzaro arroccato in difesa, pronto a mordere, come un cobra, in contropiede. Cané, al secolo Faustinho Jarbas, un carioca sulla via della pensione, attaccante di cui, in gioventù, si diceva che a Rio de Janeiro giocasse 4 partite in 2 giorni, era scatenato e guidava gli assalti dei galletti al fortino giallorosso. Più volte parve che i bruzi fossero sul punto di vacillare e cedere agli assalti dei pugliesi. Il canovaccio si protrasse per ottanta, emozionanti e coinvolgenti minuti di gioco, durante i quali nemmeno un maestro del brivido avrebbe saputo somministrare edulcorate pillole di puro thrilling. Al punto in cui il “sergente di ferro” Gianni Seghedoni principiava a farsi persuaso che difficilmente le cose potessero girare a favore della sua formazione, la Dea Bendata, dall’alto dei cieli, ordinò alla Sfiga, (che al contrario ci vede benissimo) di puntare lo sguardo esplicitamente sul Bari. Fu così che al Catanzaro e a Mammì si prospettò, inattesa, l’occasioncella unica, forse irripetibile, valevole la promozione. All’80’ la saettante, geometrica, triangolazione degli attaccanti Braca – Franzon – Gori consentì all’ala di incunearsi e fuggire a ridosso del limite sinistro dell’area di rigore dei galletti.
Maurizio Gori era “trottolino amoroso”, esile, mingherlino al punto che ogni tanto s’illudeva, e incantava tifosi e avversari, lasciando creder loro di racchiudere in sé le qualità che avevano reso celebre Omar Sivori, il “cabezòn”. I presenti lo videro pulcino Calimero, farsi ancor più piccoletto, accartocciarsi sul pallone, saettare e saltare, come birilli, i giganti della difesa pugliese, fino a riuscire a calibrare un finto e sbilanciato traversone, a metà tra il cross e il tiro in porta. Il pallone, roteante a spicchi bianconeri, attraversò l’area biancorossa pulito, volteggiando in stile aquilone, e il portiere Spalazzi, spintosi in uscita, ingannato dalle vibrazioni, perse lo sprint per agganciarlo o respingerlo. All’ultimo istante la sfera di cuoio, virò diabolica, inclinando la parabola, proprio al di sotto dei guanti dell’estremo difensore barese, dove solitario, dimenticato, snobbato, ma ben appostato, nella selva difensiva, c’era quell’Angelo, dalle ali invisibili, che era Mammì.

Mammì e il gol alla Juve
Mammì e il gol alla Juve

I tifosi festeggiarono a lungo cantando sulle note di un celebre motivo musicale sanremese del francese Antoine: “Mammì … Mammì … E’ finita la serie B!”

Ammirammo l’umile figura atletica, elevarsi, volare in alto sotto il cielo del San Paolo, e colpire di testa, a mo’ d’ariete, che incorna a fronte piena e senza pietà il pallone che altrimenti sarebbe finito innocuo oltre la linea bianca di fondo. Non ebbe riguardi Mammì, né per l’incolpevole Spalazzi e tantomeno per il Bari. Frontalmente catapultò nella porta avversaria quella sfera che altrimenti sarebbe rimbalzata, perdendosi, nelle praterie delle occasioni sfumate. L’appuntamento con la Storia s’era presentato. Lui era stato altrettanto puntuale per acciuffare dai capelli la grande, eroica occasione di tutta una vita.
La rete a maglie quadrate barese fu scossa dal fremito all’unisono del boato della folla di fede giallorossa. I supporters e i giocatori pugliesi restarono impietriti, increduli. Tanto gioco, mille occasioni, per poi subire la punizione, condannati ai sensi dell’articolo unico della legge (mai scritta) del contropiede. Le rigide teorie seghedoniane avevano avuto la meglio sul calcio-champagne praticato dal coach Toneatto. Era l’81’ e il Bari furente poteva sperare nei nove minuti residui per ribaltare l’esito. I biancorossi ci provarono e da galletti si travestirono da sparvieri per il restante tempo residuo che pareva infinito. A pochi secondi dalle 19 in punto, di quel caldissimo pomeriggio del 27 giugno 1971, il triplice fischio finale decretò la fine dell’assedio barese. Il Catanzaro (e la Calabria intera), per la prima volta, dopo quarantadue anni dalla fondazione, storicamente approdavano vittoriosi nell’Olimpo del Soccer italiano.
I tifosi festeggiarono a lungo cantando sulle note di un celebre motivo musicale sanremese del francese Antoine: “Mammì … Mammì … E’ finita la serie B!”
L’Angelo calabrese aveva dunque compiuto l’impresa – nel campionato successivo in serie A, riuscì addirittura a bissarla. 30 gennaio 1972: all’ex Militare era il turno della “Vecchia Signora” del calcio italiano: la Juventus. Le tribune totalmente esaurite, in ogni ordine di posto, per una prima nazionale: mai, infatti, i bianconeri pluricampioni d’Italia, si erano recati a disputare un match di serie A in terra bruzia. Seghedoni, che nelle precedenti partite aveva mutato formazione, cercando formule e alchimie risolutive atte a barcamenarsi, optò per: Pozzani, Pavoni, D’Angiulli, Banelli, Gino Maldera, Busatta (“l’uomo chiamato cavallo”), Spelta (“Il Jair bianco”), Zuccheri, Mammì, Franzon (Gori), Braca.
La Juve, per lo squadrone che era, schierò il meglio con gli indiscussi assi, tra cui svariati “nazionali”: Carmignani, Spinosi, Marchetti, Furino, Morini, Salvadore, Causio, Savoldi, Anastasi, Capello, Novellini. Sarebbero bastati solo questi nomi per intimorire qualsiasi antagonista!
A dirigere quello che sulla carta appariva come l’impari match fu designato il signor Toselli di Cormons.
Com’era prevedibile la Juve, affamata di vittoria, a spron battente, chiuse in una morsa, di passaggi e di azioni veloci, i padroni di casa. Il centrocampo catanzarese, resse bene l’urto e assorbì la costante pressione degli zebrati anche se il gol juventino appariva nell’aria, annunciato come il Messia a Betlemme. Le folate dell’esuberante e fantasioso Causio, le imbeccate precise di Capello ora per Anastasi, ora per per Savoldi, levavano gli “oh” di meraviglia ai quarantamila assiepati sugli spalti. Gori, Spelta, Busatta e compagni, dal canto loro, si limitarono a qualche timida azione d’alleggerimento. E di più, sinceramente, nessuno avrebbe pensato di chiedere a quella squadra tecnicamente inferiore. Su un campo paludoso (aveva piovuto ininterrottamente, per una settimana) la Juve che disponeva di calciatori altamente rapidi e veloci, quanto tecnici e preparati, soffrì e non poté esprimere compiutamente le geometrie e gli schemi consueti. Il che non impedì al portiere Pozzani, di neutralizzare le diaboliche bordate che i bianconeri gli sparavano, da ogni posizioni e da qualsiasi distanza. Nonostante la disparità di classe fisionomia e risultato dell’incontro restarono immutati sia nel primo tempo che nel corso della ripresa. A sei minuti dal termine a seguito di un contropiede di alleggerimento il Catanzaro conquistò il provvidenziale diritto a beneficiare di un corner.
Il cronografo registrava l’84′. Dalla bandierina vicina alla “Tribuna Distinti il “pel di carota”, il “roscio di cabeza” Paolino Braca, detto “il caldo”, lasciò partire un cross che inizialmente apparve sbilenco quasi la forza propellente andasse ad esaurirsi prima ancora di far breccia nello specchio dell’area piccola controllata dal gigante Carmignani. Un forte colpo di vento, o un falso rimbalzo sul terreno, inzuppato dalla pioggia, consentì al pallone di rotolare sinistramente all’altezza di non più di trenta centimetri dall’erba in una ristretta porzione di campo. Angelo Mammì era in agguato. Si tuffò come se dovesse nuotare per i cento metri in stile libero. Colpì di testa, incocciando la sfera da posizione incredibile, forse idonea per essere calciata. L’Angelo scivolò coraggiosamente, a mezz’aria, fra una selva di gambe avversarie e amiche, come fosse un siluro. La sua fronte colpì quel pallone infangato e pregno d’acqua dirottandolo oltre la linea bianca della porta difesa da Gedeone Carmignani che, rimase sdraiato, sbalordito a chiedersi: “Come ha fatto?”.
“Clamoroso al Cibali” avrebbe esclamato qualcuno della pattuglia dei padri radiocronisti di “Tutto il calcio minuto per minuto” se ci fossimo trovati a Catania. Invece si era sempre “all’ex Militare” di Catanzaro e sull’incredibile risultato di “1 a 0” per i giallorossi. Lo stadio, nel frattempo, era esploso come una polveriera minata. Gli juventini scioccati si scambiavano, a vicenda, verbalmente e a gesti, patenti di colpevolezza mentre l’Angelo Mammì a braccia levate, a bocca aperta, senza proferire un gemito o un grido, per lo choc emotivo, correva indomito lungo la rete della curva sud.
Al pari di un gladiatore vittorioso, rincorso da fotografi, vigili urbani, raccattapalle e compagni di squadra, raccolse il tributo della folla osannante, oltre i pannelli protettivi. Lui che in quel momento, per i calabresi di fede giallorossa, sparsi in Italia e all’estero, interpretava, la biblica vicenda del Davide che sconfigge Golia.
L’eco del boato dalle tribune sul rettangolo di gioco parve non spegnersi mai e Mammì, bianchissimo in volto, con la divisa intrisa di pioggia e fango, più simile a un atleta di rugby che a un calciatore, novello “Angelo dalla faccia sporca” venne portato in trionfo da chi, riuscì a placcarlo al termine della folle corsa.
A match finito, negli spogliatoi, Angelo Mammì dichiarò, ai cronisti: “Ero rimasto senza parola, paralizzato dall’avvenimento. Mi son messo a girare attorno al campo, a braccia tese come se volessi urlare, ma non riuscivo a emettere alcun suono”.
Sull’edizione del lunedì, all’indomani, il quotidiano Corriere dello Sport titolò a nove colonne: “Il fuoco del Catanzaro incendia il campionato”. Battere la Juventus non era certo impresa alla portata di qualsiasi altro club partecipante al campionato e i giallorossi avevano reso un buon favore alle inseguitrici.
Il clan torinese, non accettò la sconfitta con fair-play. Per l’occasione non seppe perdere. Lo stile gradito agli Agnelli venne messo da parte e la dirigenza catanzarese fu accusata “d’aver allagato a bella posta il rettangolo verde”. Chi scrive (all’epoca uno studente liceale aspirante giornalista) può testimoniare che in città l’intensità della pioggia nel corso delle precedenti giornate era stata torrenziale quanto prolungata e che non vi sarebbe stato alcun bisogno di aprire le manopole dei bocchettoni d’irrigazione per trasformare il campo in una risaia. Fu Giove Pluvio, solo lui, a decidere in quali condizioni si sarebbe dovuto disputare il match.
Il personaggio Mammì salì agli onori delle cronache e divenne l’eroe del momento. La sua immagine campeggiò sui rotocalchi d’attualità anche quelli non sportivi. L’Intrepido, settimanale, che ignorava – per ovvie motivazioni commerciali – le squadre meridionali, giunse – tra gli altri – a dedicargli la copertina illustrata, raffigurandolo con un disegno a colori in stile Beltrami, vicino ai “due palloni d’oro”. E quel numero del settimanale per ragazzi, almeno nelle edicole di Catanzaro e della Calabria, andò a ruba in poche ore!
Le storie del calcio, sono come le vie del Signore: infinite. Non sapremo mai perché questo piccolo, introverso e sconosciuto centravanti di provincia ebbe in dono dal Destino quel momento magico che lo rese popolare. Di certo sappiamo che seppe salire, come forse non gli sarebbe più riuscito in futuro, sul tram chiamato desiderio.
Quando un Angelo è caro agli Dei, spesso accade che se lo portino via, da questa “valle di lacrime” prima del tempo, forse per goderne in esclusiva nell’Olimpo.
Angelo Mammì si spense, purtroppo, all’età di soli 58 anni, a Pagani, mentre lavorava come trainer della Paganese. Era il 16 settembre 2000. Un male oscuro, incurabile, dopo una lunga partita tattica, aveva sconfitto la coriacea fibra costringendolo a lasciare moglie e due figli oltre che l’umile, modesta, ma onesta, carriera d’allenatore in serie C.