Il giorno che Leonardo Bonucci arrivò in via Aldo Rossi, a Milano, ero in diretta televisiva a SportItalia, chiamato d’urgenza per commentare la notizia dell’affare dell’estate, che avrebbe spostato gli equilibri del campionato. Non è stato così. É storia, certo, ma era piuttosto prevedibile: «É difficile che un difensore discreto palla al piede e mediocre in marcatura sposti gli equilibri», dissi quel pomeriggio suscitando le solite ire dei tifosi da divano pomeridiano.

Già, i tifosi. Quelli della Juventus, disorientati dalla notizia, si agitavano per lo smacco del tradimento, spaventati da un grosso cambiamento. Quelli del Milan, esaltati dalla novità, trasalivano in preda alle convulsioni, si avvicinavano alla telecamera con la bava alla bocca, la sciarpa a luglio, la maglia 19 del Milan con la scritta Bonucci prima ancora che firmasse il contratto e usurpasse il numero a Kessié: «Ce l’abbiamo noi! Ce l’abbiamo noi! E Bonucci ce l’abbiamo noi!», gridavano. «Riprende la grande dinastia dei capitani del Milan», si leggeva sui siti, sui giornali e si ascoltava negli sproloqui delle varie emittenti televisive e radiofoniche.

Tutto vero: «Bonucci uno di noi!» non se lo cantava da solo a San Siro alla prima uscita. Il discorso a favore di telecamera condito da: «Che grande leader!», non se lo diceva da solo e neanche: «Abbiamo di nuovo un grande capitano». Non è stato così. É storia, certo, ma che bisogno c’era?

C’erano da purificare tanti anni di tristezza, di pochi acquisti e poche gioie, che hanno portato all’esaltazione soggetti che, in condizioni normali, si faticherebbe a prendere sul serio:

«Passiamo alle cose formali: Mirabelli e Fassone, gli acquisti più importanti della stagione»

non se lo sono scritto da soli. Non è stato così, è storia, certo, è stato un disastro, la cronaca di una morte annunciata.

Il racconto del ritorno a casa a orecchie basse del figliol prodigo è storia ancor più recente, talmente fresca che non serve neanche ripercorrerla; probabile ce la ricorderà il Pipita durante il 2019.

Bonucci ha certamente sbagliato atteggiamento, scelte stilistiche, tempistiche e parole, ma è altrettanto vero che nessuna delle componenti della faccenda sembra avere le sembianze della vittima, tifosi compresi.

È nella logica fischiarlo, sono d’accordo, ma in questa vicenda trovo che le colpe siano piuttosto condivise. Bonucci non l’ho mai amato, né umanamente né calcisticamente, ma a questo giro lo difendo, pur avendo sbagliato per l’ennesima volta la scelta stilistica.

Non lo difendo perché vestiva la maglia della Nazionale e quindi va tifato a prescindere. Non lo difendo perché è un professionista e quindi ha fatto scelte professionali.

Non lo difendo perché: «I tifosi devono smetterla di insultare e fischiare», sono tifosi che cosa dovrebbero fare?

É così dall’antica Grecia: «Una volta alla settimana, il tifoso fugge da casa sua e va allo stadio. Sventolano le bandiere, suonano le trombe, i razzi, i tamburi, piovono le stelle filanti e i coriandoli: la città scompare, la routine si dimentica, esiste solo il tempio. In questo spazio sacro, l’unica religione che non ha atei esibisce le sue divinità…», scriveva Eduardo Galeano.

Difendo Bonucci perché il calcio dei valori è morto da anni ormai; non solo in campo, anche e soprattutto sulle gradinate, bruciato dalle boiate che si leggono e sentono sui media e a cui tutti credono. É la logica berlusconiana: dai alla gente quello che vuole sentirsi dire.

Ad accettare Inzaghi, i milanisti ci misero un anno abbondante e qualcuno non lo accettò neanche dopo Atene, se lo fece andare bene liberando l’insulto sospeso ai primi insuccessi da allenatore.

Maldini ruppe con alcuni tifosi che risposero rovinandogli la festa; Leonardo ruppe con il Milan e con Gattuso per un alto tradimento. Chi non amava il primo lo accetta come simbolo del Milan; il secondo oggi è stato accolto come un mito dopo che:

«Giuda interista, per 30 denari amore a prima vista»

Bonucci, Fassone e Mirabelli sono subito stati eletti a mito, svestiti di ogni peccato calcistico precedente in nome del nuovo Milan che portavano in dote. In base a quale logica ancora oggi non è dato sapersi.
Non se le sono dette da soli certe cose. Non le hanno scritte loro, non se le sono cantate a vicenda prima di addormentarsi. Bonucci ha detto un sacco di cazzate e continuerà a dirne, fa il calciatore e non il filosofo, sbagliamo noi il riferimento, ma non era solo mentre sproloquiava sul riportare il Milan dove gli spetta. Anche in questo caso, non si conosce la logica del ragionamento.

Fa tutto parte della logica distorta del tifo che ormai condiziona tutta la società italiana, a cominciare dai capitani della politica, passando per Fedez e Ferragni, Asia e Corona: o sei con me o sei contro di me. Non è passione o amore, è odio nei confronti dell’avversario.

É il Mi Piace-Non mi piace, il Cuoricino-Non cuoricino, è il linguaggio binario dei Social network che ci ha ridisegnato così. Questa logica fa schifo ed è il motivo per cui, pur amando il calcio, non trovo più senso nel tifare in questo modo. Per me questo non è tifo, è fanatismo e il fanatismo non mi è mai piaciuto.

Il problema non sono gli insulti, gli sfottò, le mani all’orecchio di Mourinho, le risposte piccate di Ancelotti, le corse sotto la Curva di Mazzone, il problema è che continuiamo a scambiare i fischi per fiaschi. Scegliamo la nostra parte per esclusione e non per inclusione, odiando tutto il resto. Viviamo di assolutismi in un’epoca di sfumature. Il nostro problema è l’ignoranza che crea un vuoto colmabile solo con la logica dell’assoluto, del duro e puro a tutti i costi. Un tempo tifare significava far parte di qualcosa, oggi significa odiare il resto.