Antonio Valentin Angelillo è morto un anno fa. Ex attaccante, soprattutto dell’Inter, primatista di reti segnate in un campionato di serie A a 18 squadre, con 33 gol, era arrivato al pronto soccorso del policlinico Le Scotte di Siena, il 3 gennaio 2018. Aveva 80 anni.
«Sono nato nel quartiere del Parque Patricios, vicino al campo dell’Huracán, a Buenos Aires. Figlio unico di Soledad e Antonio, un carnicero, un macellaio. Era la città di Borges e di Gardel, il Dio del Tango. Immensa. Viva. Bellissima. Lì il calcio era arte, secondo solo al Tango. C’erano Di Stefano e Pedernera nel River, Martino e Pontoni nel San Lorenzo de Almagro. Assomigliavo molto a Pontoni, centravanti del San Lorenzo. Tecnica e movimento. Studiavo e suonavo. Per quattro anni ho suonato il bandoneón, una fisarmonica per il Tango, che si teneva sulle ginocchia. Ma quando El Gordo Diaz mi vide, incominciai a giocare nell’Arsenal de Llavallol. A 17 anni ho debuttato in A in Huracàn-Racing. Presto ho esordito in nazionale.
Il trio d’attacco era Maschio-Angelillo-Sívori. Quando vincemmo il Sudamericano di Lima del ’57, siamo diventati Los angeles con caras sucias, Gli angeli dalla faccia sporca. Maschio segnò 9 gol, io 8. Sívori ne realizzò pochi: lui si divertiva. C’era anche il Brasile che l’anno dopo avrebbe vinto il titolo mondiale».
Nato a Buenos Aires il 5 settembre 1937, dopo aver giocato nel 1956 nel Boca Juniors e aver esordito in Coppa America, vinta dall’Argentina grazie anche ai suoi gol, nell’estate 1957 arrivò all’Inter dove segnò subito 16 reti. Angelo Moratti fu conquistato.
«Maschio fu ingaggiato dal Bologna, Sivori dalla Juve. Il dottor Cappelli era venuto a vedere, per conto del Milan, Cucchiaroni, che giocava con me nel Boca, quando tornò in Italia, disse a Moratti: ‘Ho il centravanti per voi’. Fui ceduto la sera di Argentina-Uruguay, 1-1, sul campo dell’Huracán. L’ultima mia partita e l’ultimo gol per l’Argentina. Arrivai a Milano a fine giugno ’57 per 80 milioni di pesos. Avevo 19 anni ed ero un disertore. Dovevo partire militare: non sarei potuto andare all’estero. Così, per vent’anni, non sono più potuto tornare in Argentina».
La stagione successiva lo consacrò: Antonio stabilì il primato di gol, per un campionato a 18 squadre, segnandone 33, 5 in una sola partita contro la Spal.
«Bastava che toccassi la palla ed era gol. Ne feci 31 in 27 giornate. Poi la porta diventò stregata. Il record di Felice Borel, 32 reti, era lì, ma per sei giornate non segnai. Solo pali, salvataggi, errori clamorosi. Con l’Alessandria, alla penultima giornata, quando esordì Rivera, ebbi 5 palle-gol e non segnai: alla fine mi misi a piangere. Solo nell’ultima partita, a San Siro contro la Lazio, spezzai il tabù con una doppietta. Poi nessuno riuscì a fare meglio. E quello, ormai, resta il record del secolo».
Antonio Angelillo, a dispetto del cognome, era un ribelle. Amava la Dolce Vita della Milano degli anni Sessanta, un po’ come oggi Nainggolan. Quando sulla panchina nerazzurra arrivò Helenio Herrera, per l’Angelo dalla faccia sporca, cominciarono i primi guai.
Due anni più tardi, nel 1961-62, passò alla Roma per 270 milioni, nonostante i richiami del Boca, pronto a riportarlo in Argentina. Nel 1962 debuttò anche nella Nazionale italiana, naturalizzato grazie alle origini lucane del nonno, ma non venne convocato per i Mondiali in Cile. Chiuse la carriera nei dilettanti dell’Angelana di Assisi, che per un angelo dalla faccia sporca pare una città perfetta. Prima giocò nel Genoa, dopo aver vinto anche uno scudetto con il
Milan, dov’era arrivato nel 1965, non troppo ben voluto visti i trascorsi Nerazzurri, passando prima per Lecco e Napoli.
Cominciò ad allenare proprio l’Angelana, dove da calciatore diventò progressivamente allenatore. Montevarchi, Chieti, Campobasso, Rimini, Brescia, Reggina e Pescara, dove ottenne la promozione in Serie A nel 1978-79, trascinando oltre 40.000 tifosi Pescaresi in trasferta, record tutt’ora imbattuto. Tutto questo prima d’iniziare l’avventura con l’Arezzo, dove ottenne risultati miracolosi: una Coppa Italia di Serie C, una storica promozione in Serie B e una quasi promozione in Serie A. Avellino, Palermo, Mantova, ancora Arezzo, i marocchini del FAR Rabat, prima di chiudere in Serie C2 con la Sassari Torres, chiamato a metà del campionato 1990-91 ed esonerato nel corso della stagione successiva.