Gli scontenti di Serie A. Quelli che riempiono pagine e pagine, ore e ore di dirette durante il Calciomercato; quelli che hanno la fila fuori dalla porta; quelli che: «É un campione e se ne vuole andare perché vuole vincere»; quelli che li vogliono tutti ma il Club non riceve offerte; quelli che Allan vale 100 milioni; quelli che Nainggolan fa la differenza – anche se gli preferiscono Fellaini e Witsel in Nazionale, non Maradona e Di Stefano. Quelli che Icardi sì, Icardi no, la terra dei cachi. Quelli che partono e poi tornano in Italia con la coda tra le gambe.

Sono tutti fuoriclasse come la sora Camilla: «Che tutti la vonno e nissuno la pija» e noi ci stiamo abituando a raccontare fenomeni che annaspano nella mediocrità.

Non dovrebbero bastare due o tre partite fatte bene per valere un sacco di soldi. Non sempre almeno. Non dovrebbe bastare buona tecnica, visione di gioco, un fisico prestante, correre come Bolt, per diventare un giocatore di successo e non restare un’eterna promessa pagata troppo.

Non dovrebbe bastare neanche il talento per essere un talento.

Servono le palle, non tra i piedi ma tra le gambe, come dicono a Versailles. Serve avere volontà d’acciaio, costanza, determinazione. Serve essere degli uomini per diventare dei professionisti e non restare dei circensi.

In Italia se ne vedono pochi, molto pochi, troppo pochi, ma abbiamo un sacco di clown, acrobati, giocolieri, fashion blogger. Siamo forti, pieni di talenti che a 25 anni devono crescere; non come quegli scarsoni che in Europa pensano di essere meglio di noi: «Ma la ruota gira, oggi siamo in crisi noi, domani tocca agli altri». Un po’ come un anno fa: «Vedrai che ci ripescano, come possono fare un Mondiale senza l’Italia?».

Un tempo ci volevano anni, sudore, fatica; serviva collezionare provincie, mangiare fango, cucirsi le ferite a bordo campo come Stam: le cicatrici danno la sensibilità.

L’Italia era la migliore al mondo per questo: talento, sapienza tattica, coraggio, forza morale e Beccalossi che il lunedì andava a pranzo dalla mamma, che non bisogna mai dimenticarsi da dove si arriva.
 Vincevano comunque i tedeschi: il calcio è quello sport in cui 22 uomini rincorrono un pallone per 90 minuti, e alla fine la Germania vince. Loro di palle ne hanno sempre avute più degli altri.

Un tempo Inter e Milan sceglievano prima gli uomini e poi i calciatori.

Milano era la città più titolata del Mondo, la capitale del calcio mondiale; l’unica con due squadre così forti, che si dividono addirittura la Scala del Calcio. Roba che all’estero ci costruirebbero il P.I.L. di una Nazione, da noi si litiga per chi vuole lasciare San Siro o sui nomi da dare alle Piazze della Città. Un tempo crescevano gli Zenga e i Gattuso, i Rivera e i Facchetti, i Baresi, i Maldini e gli Zanetti.

Oggi si fa fatica a ricordare che facce abbiano gli attori e si riempiono pagine d’inchiostro per renderli meno anonimi.

L’ha detto anche Allegri un anno fa: «Non basta fare 6 mesi bene e avere qualche titolone per essere un campione». Infatti la Juve guarda gli altri da Marte, mentre il resto d’Italia annaspa e galleggia a turno. Annegano in un bicchiere soprattutto i dirigenti, che le squadre le costruiscono dimenticandosi troppo spesso che la classe non è Aquah. La colpa maggiore, però, è di chi guarda e continua a farsi andare bene questo spettacolo.

Se la Juve non vince la Champions League è una stagione fallimentare; se il Napoli non vince l’Europa League è una stagione fallimentare; l’inter è fuori dalla Coppa Italia: è una stagione fallimentare; se Lazio, Roma o Milan non arrivano quarti è una stagione fallimentare.

Comunque finisca, il dramma è servito. L’estate è apparecchiata per qualche rivoluzione, per sperare in un ripescaggio, per contare i fallimenti: «In qualche modo sistemano e si riparte, vedrai. Figurati se fermano il calcio». Un giorno ci sveglieremo e saremo senza calcio.

La colpa, come dei dei fallimenti sportivi stagionali, ovviamente, ricadrà sull’allenatore di turno o sullo pseudo fuoriclasse che non ha reso come avrebbe dovuto secondo i titoloni.

Gattuso, Spalletti, Di Francesco, ieri erano dei geni, oggi sono dei mentecatti, domani è un altro giorno, si vedrà: «Allegri non fa giocare bene la Juventus. I tifosi vorrebbero vedere spettacolo a costo di non vincere il campionato». Se però poi pareggiano 3 a 3 con il Parma: è crisi Juve.

Scudetti a ripetizione, Coppe Italia, Supercoppe italiane, finali di Champions, 2 in 4 anni; attualmente 9 punti sulla seconda in classifica, che erano 11 dopo 21 giornate, ma la Juve è da buttare. Dopo la sconfitta in Coppa Italia contro l’Atalanta, la Juve è una squadraccia.

Una grande Atalanta, sempre più squadra di livello, sempre troppo poco considerata dalla critica.

Non mi stupirei se, tra le nobili litiganti, fosse proprio la Dea ad arrivare quarta. Lo meriterebbe, è l’unico vero progetto in crescita costante del calcio italiano oltre alla Juventus. Non è tutto da buttare il resto, qualche giovane comincia a sbocciare, qualche Società sembra aver voglia di fare le cose per bene, finalmente. Servono tempo e pazienza, ci siamo troppe volte esaltati per progetti USA e getta. Non si può neanche pensare che basti qualche mese fatto bene per vincere in Europa, non è un fatto di soldi, ma di attitudine e quella non si compra, PSG e Manchester City insegnano.

L’Atalanta ci arrivò al quarto posto, quando purtroppo significava ancora Europa League. L’Atalanta non fa notizia come la crisi della Juve. Non fa notizia come la cessione di Benatia, sostituito da Caceres: «La Juve perde un elemento importante, non sostituito adeguatamente, grosso errore in ottica Champions League». Il franco-marocchino, fino ad ora, ha giocato 6 partite in tutto e si è trasferito in Qatar, non nel Real Madrid. Le cose belle non fanno notizia come le crisi. Tira più un pel di CR7 che una bella realtà come l’Atalanta.

Ci stiamo abituando a raccontare un calcio fatto da mediocri descritti come fenomeni.

Arrotondiamo per eccesso per vendere il Calciomercato, mentre per difetto costruiamo la polemica ad arte per riempire giornali e VAR Sport. In Italia non amiamo il calcio, ma la polemica a tutti i costi.

Siamo un Paese di tifosi senza cultura sportiva, soprattutto in politica.

«Siamo un paese in recessione ma alle porte di un boom economico paragonabile agli anni ’60» e il nostro campionato è ancora il migliore del mondo. «É vero, siamo in crisi ma in qualche modo sistemano e si riparte. Un giorno saranno gli altri a essere in crisi e noi a vincere» e un bel giorno ci sveglieremo senza calcio.