Nidhal Selmi nasce il 31 gennaio 1993. La sua famiglia vive in un sobborgo a nord di Sousse. Il padre ha un’officina di ricambi per automobili e, per suo figlio, sceglie un nome che ne segnerà il destino. Nidhal significa «Colui che combatte per la causa».

Il ragazzo convince presto i genitori che il suo futuro è il calcio. Entra nelle giovanili dell’Etoile du Sahel, El Hamra: la rossa. La Juventus della Tunisia. Corre, lotta, contrasta, impara subito gli schemi. È ambizioso e sa stare nello spogliatoio: chiacchiera con tutti, a fine gara scherza per tirare su il morale se le cose sono andate male. E poi crossa benissimo. Lanci tesi e precisi in mezzo all’area, di quelli che piacciono agli allenatori. Nell’estate del 2012 gioca la Coppa Araba per Under 17 e segna il gol del 2-0 alla Libia. L’anno successivo è alle porte della prima squadra, ma gli manca qualcosa. Prova prima a trasferirsi a Tripoli, poi a Monastir. El Hamra non lo lascia andare. Nidhal va agli allenamenti in BMW, veste alla moda, è sempre attaccato al suo iPhone5 e ama i videogiochi. Per i giornalisti ha talento e una carriera assicurata. Suo padre Fathi gli augura un futuro meno complicato di quello di Rayan: il fratello maggiore di Nidhal è andato al Cairo per studiare all’università al-Azhar, uno dei luoghi più prestigiosi di insegnamento sunnita. Poi si è arruolato con i ribelli siriani per combattere il regime di Bashar al-Assad.  Nella stagione 2013-14, all’Étoile du Sahel arriva l’ex tecnico della Francia Roger Lemerre. Il mister fa giocare Nidhal in prima squadra. Sette partite, due gol, tre assist. Ma quando sembra che nel suo futuro possa esserci la Nazionale, qualcosa si rompe.
Football Punks: Nidhal Selmi
Prima delle gare si ritira per pregare, frequenta la moschea di Sahloul e ogni volta che i compagni parlano di religione, si allontana e mette le cuffie per ascoltare hip-hop. Nidhal sembra nervoso, forse non è soddisfatto del contratto. Litiga con compagni e staff, viene ripreso ufficialmente dalla società. Non va più agli allenamenti e il suo cellulare è sempre spento, i dirigenti telefonano a casa e Fathi taglia corto: «Mio figlio è in Libia. Deve comprare pezzi di ricambio per il negozio». Altri squilli, inutili. Allora il suo fisioterapista prova a contattarlo su facebook e salta sulla sedia. Al posto di lui che sorride a bordo piscina, ora nell’immagine del profilo c’è la bandiera nera dello Stato islamico. Il fisioterapista vede un pallino verde accanto al nome. Nidhal è online: «Sei in Siria?». Il pallino verde sparisce, poi: «Ci rivedremo in paradiso». Le foto che Nidhal pubblica sul web sono inequivocabili. Si è fatto crescere la barba, è in tenuta da combattimento, imbraccia il kalashnikov e invita tutti a raggiungerlo nei campi jihadisti. Nidhal Selmi, combatte sulle colline di Raqqa e colpisce gli obiettivi con la precisione con cui crossava in area di rigore. È uno dei tremila tunisini che, fino a quel momento, hanno raggiunto i luoghi in cui l’Isis si è territorializzato. E non è il primo calciatore: Talal Jebreen, dopo aver giocato da mediano in Arabia Saudita, si è arruolato con al-Qaeda. Anche Ryad Nizar Trabelsi, tunisino come Nidhal, è diventato terrorista. Prima lo Standard Liegi e la Bundesliga, poi l’alcool, l’Afghanistan, l’incontro con Osama Bin Laden e il progetto di un attacco suicida contro la base militare di Kleine Brogel, in Belgio. Fabio Pocas, invece, dal Portogallo è andato in Si- ria per diffondere i filmati di propaganda della jihad. E un anno prima della partenza di Nidhal, sempre in Siria è morto Burak Karan, che aveva giocato nelle nazionali giovanili tedesche con Sami Khedira e Kevin Prince-Boateng. Il percorso di radicalizzazione di Nihdal non è chiaro. Dietro il suo progetto non ci sono mise- ria o calcolo economico. Nidhal a un certo punto sente di non essere nel posto giusto, non riesce più a dare valore all’esistenza. Chi l’ha instradato verso il Califfato gli ha o erto certezze su bene e male, gli ha dato uno scopo nella vita e l’illusione di essere la risposta ai suoi problemi. Gli ha fatto credere che, imbracciando il kalashnikov, avrebbe avuto gloria eterna. Molto più nobile di una coppa alzata con la Nazionale. Il 16 ottobre 2014, Rayan contatta il padre: «Nidhal è in cielo. Non piangere». Il cecchino che giocava a calcio muore nei dintorni di Raqqa in un agguato.