Il conflitto fra Israele e la popolazione araba, è inutile che lo specifichi, trascende ogni tipo di sport, è qualcosa che ormai si è collocato nell’immaginario popolare del Medio Oriente con la stessa forza che ha in Usa la lotta contro la segregazione razziale. È scontato che il calcio non possa da solo cambiare la politica, le ideologie o chissà che altro ma mi sforzerò di racchiude questo enorme concetto fra le mura, seppur ampie, di questo spettacolo che tanto ci appassiona. Prima però una brevissima e sicuramente imprecisa ricostruzione degli eventi chiave che a tale questione sono collegati: nel 1948, in seguito ad un accordo unilaterale con l’Impero britannico, nasce lo stato di Israele e quello di Palestina, subito la popolazione araba e i gruppi fondamentalisti israeliani insorgono per il controllo assoluto della parte di territorio che, a loro modo di vedere è stata tolta al loro popolo. Si susseguono diverse guerre fra cui quella del “48, del “67 e del “73, in cui si susseguono vittorie di Israele nei confronti di una popolazione araba sempre più scacciata nel territorio di Gaza e Cisgiordania. Nel 1972, durante le olimpiadi di Monaco, un gruppo di terroristi palestinesi rapisce ed uccide 9 atleti israeliani, mettendo tristemente in luce la parte più sanguinosa di questo conflitto e mettendo le basi per la guerra sopra citata e per la prima Intifada del 1987. Nel 1993, in seguito agli accordi di Oslo ci sono per la prima volta tentativi per porre fine al conflitto che dilania queste nazione ormai da 45 anni, tali accordi sono però di fatto vanificati dalla morte di Yitzhak Rabin, primo ministro israeliano, e dalla seguente salita al potere di Benjamin Nethanyau, capo del Likud, partito con tendenze fortemente conservatrici e co-ideatore del muro che dal 2002 separa Palestina ed Israele.

Israele - Italia
Israele – Italia

Tutto questo ha inciso in maniera esponenziale sulle menti degli uomini e ancor di più in quelle di certi calciatori che hanno intravisto nella loro popolarità un faro per sensibilizzare l’opinione pubblica. È questo il caso di Frédéric Kanouté, giocatore francese ma di origini maliane, che nel 2012 diede vita a una vera e propria raccolta di firme contro la scelta della UEFA di far disputare i mondiali Under 20 in Israele, a tale raccolta aderirono frall’altro giocatori del calibro di Eden Hazard e fu effettivamente una delle prime volte in cui questo tipo di iniziative ebbe un risalto internazionale. Fortunatamente però il calcio ha dato anche dimostrazione di essere un mezzo per porre fine al conflitto o quantomeno provarci; ne è un esempio la società israeliana Bnei Sakhnin, nata per volontà dello sceicco qatariota Al Thani e dal magnate israeliano Gaydamak con lo scopo di permettere ai giocatori arabo-israeliani e quelli ebrei di poter giocare insieme senza alcun pregiudizio e facendo gioire i propri tifosi. Il club inoltre ha dato anche segno di non essere una realtà nata solo a fini benefico-promozionali, tanto da conquistare il primo anno una storica Coppa di Stato e di conseguenza una partecipazione in Europa League. La strada per la pace è sicuramente lunga ed impegnativa e il calcio probabilmente non sarà lo strumento in grado risolvere il conflitto, può però essere un punto d’incontro importante per mostrare di come la collaborazione non solo è possibile, ma offre benefici ad entrambi i popoli, il più banale dei quali è quello di vivere in pace.