Quattro Mondiali, due Olimpiadi, otto Giri d’Italia, centinaia di partite e 30 anni alla Gazzetta
non sono abbastanza: da oltre un anno si è imposto come uno dei volti più noti di Sky.
Dove il suo modo di raccontare le partite e gli allenatori ha dato un inedito spessore culturale al calcio: «Uno sport dove è ancora possibile inventare qualcosa, come ha dimostrato Guardiola»

Paolo, sei il più bravo di tutti? «Non so, non saprei. Ma se lo dite voi, mi fido». Paolo Condò, classe 1958, triestino doc, è senza dubbio uno dei volti più noti (e rispettati) del giornalismo televisivo italiano. E non solo per il fatto di essere l’unico italiano che vota per il Pallone d’Oro. Conduttore di Sky Calcio Show e di Mister Condò (nel quale intervista e racconta il lato più profondo degli allenatori), non è uno che si trova dov’è per caso.
Il suo curriculum parla per lui: oltre 30 anni di Gazzetta dello Sport, giornale che è stata la sua vita e per il quale ha seguito alcuni dei momenti più emozionanti del calcio degli ultimi tre decenni, dal Milan di Sacchi alla Nazionale, passando per quattro Mondiali, due Olimpiadi, otto Giri d’Italia e, dopo un’esperienza come capo della redazione calcio, tantissime partite di calcio internazionale. Poi il passaggio alla Tv e la riscoperta di qualcosa che, negli ultimi anni di carta stampata, gli era mancato parecchio: l’emozione della diretta, la novità, l’adrenalina: «Sul giornale hai più tempo di riflettere quando scrivi, se non ti viene la parola giusta puoi anche fermarti 20 secondi davanti alla tastiera. In Tv non puoi permetterti pause, devi sempre essere ferrato su tutto e non farti mai trovare impreparato. Una sfida avvincente».
Eppure, senza offesa, sei uno degli ultimi dinosauri del giornalismo vecchio stile. «Ho iniziato nella mia città in un settimanale chiamato Trieste Sport a 19 anni, quattro anni dopo venni assunto al Piccolo dove mi occupavo di sport, dopo aver fatto la classica gavetta da collaboratore. Poi, nel 1983, il primo colloquio alla Gazzetta, ottenuto grazie a una bella botta di fortuna. Allora David Messina seguiva spesso l’Udinese e, quando veniva in trasferta a Udine, veniva a trovare la figlia Paola che lavorava con me al Piccolo. Dopo qualche cena assieme mi disse che alla Gazzetta si era insediato un nuovo direttore che voleva ringiovanire una redazione piuttosto vecchia. Il tutto venne facilitato dal fatto che allora il Piccolo era di proprietà dello stesso editore della rosea».
Quel direttore era Candido Cannavò.
«Allora Cannavò era solamente un giovane direttore che aveva da poco preso in mano le redini del giornale. Il vero mostro sacro, quello che ai giovani come me metteva terrore solo a vederlo, era il direttore editoriale Gino Palumbo, un gigante del giornalismo sportivo, l’uomo che aveva rivoluzionato la Gazzetta. Il primo colloquio è stato quasi fantozziano: io ero uno sbarbatello arrivato da Trieste e mi trovavo di fronte a quello che di lì a poco avrebbe dovuto dirigere il Corriere della Sera. Purtroppo non ci riuscì mai: dovette rinunciare per gravi motivi di salute e morì pochi anni dopo».

Intervista a Paolo Condò, il giornalista dell'anno
Intervista a Paolo Condò, il giornalista dell’anno

Cosa successe il primo febbraio del 1984?
«Il mio primo giorno di lavoro nella redazione calcio, accanto a colleghi del calibro di Lodovico Maradei, Franco Mentana, Angelo Rovelli, Roberto Beccantini che a mio avviso allora era il più brillante di tutti, e un giovane Alberto Cerruti. Nei primi anni ho affiancato i colleghi più esperti, sono andato in appoggio su Milan e Inter. Fino al 1987 quando l’allora vicedirettore Mario Sconcerti mi lancia al seguito della Nazionale, assieme a Maradei. Ho il poco invidiabile record di aver fatto quattro mondiali e non aver mai visto l’Italia vincere …».
Qual è stato il momento più bello della tua vita professionale alla Gazzetta? «Ne ricordo molti ma quello che ho più nel cuore è la finale mondiale raccontata come prima firma nel 2014». E il più difficile? «Durante i Mondiali di Giappone e Corea nel 2002. Era da poco andato via Cannavò e la direzione successiva (quella di Pietro Calabrese) spingeva per un rinnovamento delle firme e dei contenuti. La tensione tra gli inviati e i nuovi vertici era alle stelle. Io dall’estremo oriente ero il mediatore tra i metodi sbrigativi della direzione e le personalità forti che erano con me, su tutte quella di Maradei, di cui ero l’unica interfaccia col giornale. In più dovevo fare anche da badante a Germano Bovolenta: non parlava mezza parola che non fosse in italiano e non riusciva ad adattarsi alla cucina e alle abitudini locali. So solo che dopo quel periodo mi sono spuntati i primi capelli bianchi e ho avuto bisogno di mettere gli occhiali per leggere da vicino».
Quali sono i colleghi da cui hai imparato di più? «Ho sempre cercato di prendere il meglio da tutti, sia dagli anziani della Gazzetta sia dai miei coetanei, così come dai colleghi di altre testate. Mi sento in debito nei confronti di Maradei, che è stato un eccellente capo equipe ai tempi della Nazionale, e di Sconcerti che mi ha dato una grossa occasione».
Il tuo giornalista preferito? «Marco Pastonesi, con cui ho condiviso otto Giri d’Italia. Lui ha due doti rare da trovare in un solo giornalista: una scrittura sopraffina e una voglia viscerale di andare a caccia di notizie».
Non solo calcio nella tua vita: anche Olimpiadi e ciclismo. «L’esperienza più bella della mia vita sono stati senza dubbio i Giri d’Italia. Non sono solo sport, ma anche conoscenza, vita vera, un pezzo d’Italia che viaggia a bordo di un’unica carovana. Sono l’opportunità di conoscere da vicino le persone, gli angoli più incredibili e remoti del nostro Paese, l’occasione per vivere un mese a bordo di una carovana dove protagonisti e spettatori sono a stretto contatto. Dal Giro ho capito quanto è grande l’orgoglio degli italiani come popolo che si riconosce nell’evento sportivo. Ricordo con piacere che alla sera, dopo la tappa, andavamo nei ristoranti ostentando il pass stampa. Sistematicamente, passava l’oste di turno che ci individuava come “quelli al seguito del Giro”. Per fare bella figura apriva per noi le cantine più segrete, i prodotti tipici più gustosi e le leccornie della casa…».

Miglior esperienza, i Giri d’Italia: quella è vita vera. Ho capito quanto è grande l’orgoglio degli italiani. Il miglior tecnico del mondo è Pep Guardiola, è l’unico che sa ancora inventare qualcosa. I suoi due fenomeni futuri sono Gabriel Jesus e Leroy Sané Leroy Sané».

Pep Guardiola
Pep Guardiola

Aldo Grasso scrive di te che interpreti il calcio con spessore culturale. «Come tutti i giornalisti ho una bella dose di vanità e narcisismo, per cui la cosa non può che farmi piacere. Inoltre l’esperienza di Sky ha contribuito ad aumentare notevolmente la mia visibilità. A livello empirico me ne sono accorto dal numero dei follower su Twitter, che è raddoppiato da quando faccio TV. Ma questo aspetto ormai mi interessa poco: non ho più l’età in cui ci tengo a essere riconosciuto e riconoscibile per fare lo splendido con le ragazze. Ho due figli di 14 e 11 anni e soprattutto una moglie…».
Sei noto per non essere un tipo litigioso, con cui è facile attaccare briga. Ti sei mai scontrato con qualche calciatore o allenatore? «Una volta, mentre seguivo l’Inter, mi fecero scrivere un articolo sul fatto che Riccardo Ferri fosse diventato recordman di autoreti in Italia. Lui non la prese bene: il giorno dopo mi vide a bordocampo ad Appiano Gentile, venne da me e mi prese così a male parole che decisi di allontanarmi. Se non ci fosse stata la rete, credo che mi avrebbe anche picchiato. Poi, qualche anno dopo, tentai di fare sul giornale una battuta malriuscita sul fatto che Eugenio Corini fosse sempre infortunato. Lui mi chiamò al telefono e, con un’educazione senza pari, smontò parola per parola il mio pezzo. Era riuscito a demolirmi senza essere volgare.
Passando al calcio giocato, parliamo degli allenatori, che sono da sempre una tua passione. «Tra gli italiani faccio due nomi. Carlo Ancelotti che per me è il miglior tecnico italiano, Arrigo Sacchi che col Milan ha rivoluzionato il modo di intendere il calcio nel nostro Paese. Non parlo di Roberto Mancini: sono troppo suo amico per dare un giudizio imparziale sul tecnico…».
Chi è il miglior tecnico al mondo? «Pep Guardiola. Ha dimostrato sia al Bayern Monaco sia al Manchester City che nel calcio si può ancora inventare qualcosa. Le “coperture preventive”, ossia il suo modo particolare di fondere il possesso palla e il recupero della stessa in una zona molto alta del campo hanno fatto scuola. È puro genio. Ed è anche un grande talent scout. Non a caso ha adocchiato per primo e fatto suoi i due futuri fenomeni del calcio Gabriel Jesus e Leroy Sané».
I migliori che hai visto giocare? E la partita più bella cui hai assistito? «Ricordo come fosse adesso il quarto di finale della Champions 2008-09 tra Chelsea e Liverpool. All’andata i Blues avevano vinto 3-1, al ritorno ho assistito a un incredibile 2-0 del Liverpool rimontato sul 3-2 dal Chelsea, poi i Reds ne fecero altri due. A quel punto, sul 3-4, con la squadra di Hiddink in bambola, al Liverpool sarebbe bastato un altro gol per centrare la qualificazione. Invece Lampard segnò il 4-4 finale».
Torniamo in Italia. Cosa fare per tornare protagonisti in Europa? «Lavorare sul format del campionato. Vedrei bene un torneo a 18 squadre e mi piacerebbe che anche da noi si investisse seriamente sulle seconde squadre. Al momento l’unica squadra italiana di livello europeo resta la Juventus».
Non ti sembra che il nostro campionato sia diventato troppo prevedibile? «La vera incognita è Milano. Mi spiego: la Juve è una certezza, Roma e Napoli sono altalenanti ma occupano stabilmente posizioni di vertice. Negli ultimi anni sono mancate Milan e Inter ad alti livelli. Se le nuove proprietà cinesi investiranno seriamente, i due club torneranno competitivi in campionato. E se il livello del torneo si alza, ne beneficia sia la Serie A che diventa più combattuta, sia la competitività dei nostri club a livello continentale».