Angelo Forgione, descriverlo in poche parole è impossibile. Non ci riesce nemmeno lui. Sul suo blog si definisce “scrittore e giornalista, opinionista, storicista, meridionalista, culturalmente unitarista”.

Dopo aver letto il suo libro best seller “Dov’è la vittoria” – che spiega in modo minuzioso le dinamiche che hanno portato ad una supremazia sportiva del Nord ai danni del Sud – abbiamo deciso di contattare Angelo Forgione per fare due chiacchiere sulla situazione attuale del calcio italiano. Il suo libro ha avuto una cassa di risonanza internazionale. Si sono interessati all’indagine di Forgione anche importanti media come ESPN e la rivista spagnola PANENKA, oltre che PlayGround e altri portali stranieri.
Come nasce “Dov’è la vittoria”? Nasce da una semplice curiosità circa un fatto oggettivo. Ho visto l’albo d’oro e ho capito che qualcosa non quadrava. Ho visto che c’era una netta sproporzione di Scudetti vinti dalle squadre del Nord, inteso come triangolo industriale esteso anche al Nord-Est, contro le squadre a sud. Poi sono andato a studiare la storia del campionato italiano e ho scoperto che fino al 1926 non esisteva una divisione nazionale, e quindi ho capito che Mussolini aveva posto fine a una dittatura sportiva del Nord e ricondotto il calcio al suo regime nazionalista. Il calcio italiano nasce come espressione economico-finanziaria del triangolo industriale – che si era impossessato del gioco del calcio alla nascita del 1898 – e diventa strumento politico dopo circa trent’anni. Da questo spunto è nata la scintilla che mi ha spinto ad approfondire tutte le questioni, capendo poi che, come tanti altri aspetti sociali, anche il calcio è legato molto all’aspetto dualistico nazionale, dove purtroppo troviamo anche una limitata considerazione della società meridionale.
Se non fossi napoletano, potrei dirti: vedi, i meridionali sono i soliti “vittimisti”, perché se vedi la partita di ieri – Juventus-Milan 2-1 con rigore molto generoso al 97’ ai bianconeri – si sfidavano due squadre del Nord. Un Nord è più importante dell’altro? Ci sono delle dinamiche contingenti. Dipende dal momento che si attraversa. Questo è un periodo molto particolare, caratterizzato da delicati equibri interni tra gli Elkann e gli Agnelli – qualche riferimento ne ha fatto anche De Laurentiis in un’intervista rilasciata recentemente a BeIN Sports – che in questo momento porta ad una volontà spasmodica di Andrea Agnelli di affermarsi in ambito sportivo e dimostrare al cugino John di meritare ruoli importanti nell’ambito delle scatole cinesi della Exor. La Juventus è sempre stato il tirocinio di famiglia, un trampolino per i grandi ruoli della finanza familiare, ma dopo la morte dei due gerarchi Gianni e Umberto abbiamo due famiglie apparentemente d’accordo che d’accordo non sono. Fino a che punto tutto questo influenzi i risultati sportivi è difficile dirlo con precisione, ma che ci sia una sudditanza psicologica da parte degli arbitri è certo, e questa non riguarda solo questo preciso momento, ma è da decenni gli arbitri, se vogliono fare carriera, e vogliono certamente farla, non possono farsi ricusare dai grandi club. Oggi il Milan è meno potente della Juventus, e perciò, per quanto riguarda la partita di ieri, non mi stupisce che ci sia una squadra che gioisca e un’altra che protesti.
Leggendo il tuo libro si capisce che Andrea Agnelli non ha inventato niente di nuovo e che la presenza della famiglia Agnelli nel calcio è stata abbastanza incisiva, no? Altroché! Basta andare a guardare per bene la storia della Juventus per notare che tutti gli scudetti sono scudetti della famiglia Agnelli, partendo da Edoardo, fino al figlio Giovanni e poi passando per Umberto e ancora oggi Andrea. Noterete che al di fuori della proprietà Agnelli il club bianconero ne ha vinto uno solo ed era nel 1905, in un campionato a 5 squadre disputato tra Liguria, Piemonte e Lombardia. 1 solo scudetto nel “campionato del triangolo industriale”, dal 1898 al 1923. Persa la proprietà nel 1936, e fino al 1947, nessuno scudetto. Rientra la famiglia e, complice la tragedia del grande Torino, tornano gli scudetti. Questa realtà storica oggettiva è molto indicativa per spiegare l’incisività della famiglia Agnelli nella storia della Juventus e del calcio italiano.
Questo potere si riflette anche sui media? Ci sono situazioni che andrebbero sviscerate e chiarite alle masse, e a farlo sono davvero in pochi. C’è qualcuno che cerca di chiarire le dinamiche finanziarie legate al calcio, ma alla gente interessa solo il tifo, la passione, il divertimento, fino a quando poi non scoppia lo scandalo, perché poi nel calcio accade questo. Ci si stupisce di ciò che accade, si cerca sempre di credere in una trasparenza totale. Poi scoppia lo scandalo, tutti si scandalizzano, e la giustizia sportiva, spesso anche ordinaria, procede a sommari repulisti, e tutti ritornano a credere nello sport, nel calci… fino allo scandalo successivo. È una sequenza ciclica, a partire dal Ventennio fascista. Stiamo parlando della storia del nostro calcio che è fatta così.
Il calcio meridionale è senza grandi media. È un reale problema? Certo che lo è. La stampa è tutta legata a editori del Nord. Al Sud mancano televisioni e quotidiani, a parte il Corriere dello Sport, che è più centralista e cerca di abbracciare anche Napoli. Guardate cosa accade quando parla contro il sistema mediatico il presidente di una squadra del Sud, che è l’unica che riesce a contrastare sul campo la forza delle squadre del Nord, e che addirittura si sovrappone in questo momento anche alle squadre di Milano, ma che non riesce a sovrapporsi a quella di Torino. Se parla in una determinata maniera, viene considerato come un rivoluzionario, un rompipallone, un lamentoso con la cultura del pianto. Quando Moratti e Agnelli combattevano la battaglia “morale” degli scudetti, quelli di cartone e quelli sul campo, non era il Sud piagnone che si lamentava del Nord ma era Milano contro Torino, l’eterna rivalità tra due poteri. Si sono riempiti fiumi di parole, fino a tediarci tutti e disgustarci per anni, ma sembrava tutto legittimo. Nessun quotidiano o tivù che abbia speso una parola in nome del buonsenso. Semplice capire il perché.
Secondo te De Laurentiis sta aspirando al potere della famiglia Agnelli nel calcio, o pensa di poter arrivare alla vittoria senza assumere quel determinato potere? No, De Laurentiis sa di non poter mai arrivare a quel tipo di potere. È ben consapevole del tipo di colosso – finanziario ed economico – che si ritrova di fronte oggi. Quindi, persegue una gestione molto oculata, e non ha nessuna intenzione di fare investimenti così corposi da poter lanciare una vera sfida alla Juventus. Non mi stupisce che la sua gestione sia questa e che non faccia sforzi eccessivi che metterebbero in difficoltà una società del Sud come il Napoli. Quando questo sforzo è stato fatto – per ragioni politiche e sociali – , il Napoli ha vinto, ma la gestione di quella squadra andò ben oltre gli introiti, e pagò con anni di bilanci in rosso, fino al fallimento.
Con uno studioso di Questione meridionale come te è impossibile non parlare dell’arrivo di Salvini a Napoli. Cosa ne pensi? Penso che Salvini vada snobbato, e si squalifica da sé. La storia parla per lui. Anche la storia della Lega Nord parla chiaro. Oggi c’è un cambiamento di atteggiamento da parte della Lega e lui cerca di dare nuova faccia al leghismo. Si è svestito di felpe verdi, di scritte con messaggi separatisti e secessionisti, per ottenere vantaggi politici ed elettoralei. Alla piazza napoletana, l’altro giorno, chiedeva di “conoscersi, di capirsi, di apprezzarsi” ma questo è un discorso che andava fatto negli anni Ottanta-Novanta, quando la Lega Nord ha diffuso sentimenti di odio nei confronti degli extracomunitari e dei meridionali. E se oggi, non solo negli stadi ci sono certi cori insistenti, lo dobbiamo soprattutto alla Lega Nord. Scendere a Napoli oggi, nel 2017, dicendo che si è cambiato atteggiamento, al solo fine di ottenere più voti al Sud, mi sembra un’operazione talmente evidente, e i napoletani non potevano certamente bersela. Contestarlo è normalissimo, è la diretta conseguenza di decenni di odio e razzismo. La contestazione non deve sfociare in atti di violenza, ma è giusto che i napoletani protestino e facciano capire a Salvini che questa non è zona per lui.
Torniamo sulla discriminazione territoriale: perché tutti odiano i napoletani? Mi è capitato anche di vedere partite dove non giocava il Napoli e sentire cori contro i napoletani. Perché? Questo accade anche al Sud. Non sono cose che succedono purtroppo solo al Nord. C’è Salerno, c’è Bari, c’è Reggio Calabria… è un po’ tutta l’Italia che ha adottato questo modo di interpretare questi sentimenti di odio, che come ho detto prima, sono stati diffusi dalla Lega Nord, ma il calcio ha avuto una funzione sociale molto importante per trasmetterli. Se andiamo a vedere quali sono i tifosi delle squadre del Nord – Juventus, Milan e Inter – grandissima parte la troviamo al Sud. Se ci limitiamo esclusivamente al calcio, non è un caso che anche il Sud detesti il Napoli e lo dimostri ogni domenica in modo volgare negli stadi. Perché Napoli, essendo l’unica squadra che riesce a contrastare il potere delle squadre del Nord, provoca invidia nelle altre città del Sud, dove spesso si fa il tifo per le squadre settentrionali, anche quando quelle città riescono a raggiungere la massima serie. Allora si tifa per il Bari e per la Juventus, per il Palermo e per la Juventus, per la Reggina e per la Juventus. Si sposa quell’altra fede che appartiene ad altri territori. Napoli, che è fortemente azzurra ed è monolitica, nel senso che non si tifa Napoli e Juventus insieme, diventa baluardo di una fede che non ha pari altrove, e che sconfessa la mancanza di identità del meridione. Purtroppo si tratta di una colonizzazione sportiva, ma che fa parte di una colonizzazione sociale…. È tutto strettamente legato!
Può essere un’invidia verso un forte senso di appartenenza del tifoso napoletano? Infatti è proprio così. Nel mio libro faccio questa riflessione. Napoli, come dicevo, è una città molto identitaria. E ci sono poche squadre in Italia che rappresentano un’identità: Napoli, Roma e Fiorentina. Però Napoli è la più forte sotto questo aspetto, perché Roma è frammentata tra romanisti e laziali, quindi il bacino di utenza della Roma è inferiore a quello del Napoli, nonostante Napoli abbia una popolazione inferiore a quella di Roma. Firenze ha pure un sentimento d’identità molto forte, ma è una città molto più piccola, quindi perde di valenza. Napoli è davvero un monolito e questo genera avversione e forte rivalità nelle tifoserie più corpose, ma non solo.
Secondo te come si potrebbe sconfiggere la discriminazione territoriale? L’UEFA aveva richiamato le federazioni nazionali ad una lotta contro il razzismo, e questo non valeva solamente per l’Italia, ma anche per esempio per la Gran Bretagna, dove ci sono lotte tra presbiteriani e cattolici, toccando quindi anche la sfera religiosa. Le cose che accadono da noi sotto il profilo territoriale, accadono anche in altri paesi, per altri aspetti. Dopo il richiamo dell’UEFA, la FIGC si adeguò – soprattutto dopo quello che era accaduto a Torino con il famoso caso Amandola (n.d.r.: giornalista Rai licenziato dopo un servizio contro i napoletani) fuori dallo Juventus Stadium che scateno un vero putiferio – solo che scelsero la soluzione sbagliata: la chiusura dei settori. Questa cosa creò un caos enorme perché era ingestibile, perché poi i tifosi potevano mettere le società sotto scacco diventando i veri padroni dello stadio. Bastava cantare contro i napoletani e le società ne pagavano le conseguenze, mentre ai tifosi veniva solo vietato di guardare la partita, senza tener conto che ad un ultrà poco interessa di assistere o meno ad una partita. Anzi, a loro più dai potere, più li metti al centro dell’attenzione, e meglio è. Vista questa situazione si è fatto il doppio passo indietro. Ora tutto è sotterrato, tutto è silenziato e quindi sono ripartiti nuovamente questi cori sempre a spese delle società. Quindi le società sanno che devono pagare per i cori razzisti contro i napoletani, e nessuno si scandalizza per questa cosa. È come se i club di Serie A si siano autotassati per nascondere il problema, e nessuno si rivale sui colpevoli. Cosa bisogna fare? Va insegnata l’etica a partire scuola. Perché questa situazione non si risolverà mai con provvedimenti improvvisi. Bisogna iniziare dalle scuole, bisogna far capire ai ragazzini che studiano nelle scuole, sia del Sud che nel Nord, che l’Italia è qualcosa di peculiare. Bisogna cambiare i libri di Storia, che sono ancora impostati sul più spinto spirito risorgimentale, quello che insegna che il Sud era ed è retrogrado, e deve ringraziare il Nord per la sua civilizzazione. Se non si inizia a inculcare il rispetto delle diversità, se non si racconta agli alunni una storia più veritiera e se non cambia l’ottica della narrazione televisiva e giornalistica, è chiaro che una volta cresciuti, i ragazzi si ritrovano allo stadio a tifare contro i napoletani in maniera volgarmente discriminatoria. Purtroppo non è un problema che si risolve con uno schiocco di dita, c’è bisogno di una cultura sociale diversa, che poi va tramutata in cultura sportiva, altrimenti non se ne esce. Hai voglia poi a parlare di unità.
Ultima domanda: dimmi qualcosa che non ti piace di Napoli e dei napoletani: ci sono diverse cose che non mi piacciono tra le tante positive. È un limite l’individualismo sfrenato. Il fatto che i napoletani non facciano squadra e che guardino con diffidenza i propri concittadini. Il napoletano non è capace di creare una massa critica unica. Un’altra cosa che cambierei dei napoletani è l’orgoglio di pancia. L’orgoglio dei napoletani è di pancia, non è di testa. Il napoletano professa orgoglio, pensa che Napoli sia la città più bella del mondo, pensa che sia la cultura più importante che ci sia, e nella stessa fattispecie questo lo vediamo anche nel calcio: quando il napoletano dice “noi siamo il Napoli e dobbiamo vincere”, perché il napoletano crede che solo perché la squadra si chiama Napoli abbia il diritto sacrosanto di vincere. E non è così che si esprime la propria collettività e la propria cultura. La cultura napoletana è importantissima e fondamentale per l’Occidente, ma non è l’unica cultura che esiste. Napoli è una città stupenda, ma è deturpata dal comportamento di certi napoletani. Napoli va rispettata ogni giorno, con la cura del tuo territorio, mentre invece i napoletani sono molto approssimativi e talvolta sono i primi a creare problematiche serie al decoro. Il degrado che c’è in questa città non possiamo attribuirlo solo alle amministrazioni locali, alla pochezza di fondi e di stanziamenti nazionali, e di tutto quello che fa parte della politica. Il degrado fa parte anche di una mancanza di cura del bene comune, e questo è anche colpa dei cittadini. I napoletani, in buona quantità, e lo dico da grande amante di questa città, non si comportano in maniera corretta nei confronti di Napoli. Ci vuole cura e cultura.
Quando ti candidi a sindaco? No, non intendo fare politica, perché il sistema politico non mi piace e ne verrei immediatamente divorato, quindi preferisco fare cultura che è una maniera molto più alta di fare politica. Preferisco rinapoletanizzare i napoletani e dare ai non napoletani un’idea più veritiera di Napoli, del Sud e dell’Italia intera.