«Se fossi un giocatore da 50 gol a campionato forse costerei 80 milioni di euro e non sarei qui alla Roma». È tutta in questa frase esageratamente sincera la diversità di Edin Dzeko, il bomber troppo gentile, un coacervo di contraddizioni, l’uomo con troppe qualità, ma che sembrano spesso quelle sbagliate.

È un corazziere che ha sovrastato persino Chiellini, ma teme gli impatti facili sotto porta nel derby più importante degli ultimi anni. Un centravanti alto 193 centimetri che è tra i peggiori colpitori di testa che un campo di calcio abbia visto, ma che con i piedi dipinge capolavori.
E nella stessa partita in cui lo fa, contro un disastrato Palermo, sbaglia un gol a porta vuota che diventa proverbiale e fa rimpiangere il bidone Seydou Doumbia, diventando protagonista di meme impietosi. Un attaccante che segna quasi un gol a partita con le piccole e solo tre reti in 14 partite decisive, tra scontri diretti in campionato e coppe (di cui due a Napoli, ma all’andata).
Scordatevi Ibrahimovic e il suo «non ricordo neanche l’ultima volta che sono arrivato secondo», la sua rabbia verso i compagni che non obbediscono, la voglia mannara di vincere, dimenticate l’isteria di Higuain, Ronaldo il cannibale. Edin avrà sempre una buona parola per un assist sbagliato e persino per un avversario che lo stende. Non protesta, non urla, non pretende. Lui è il calciatore noto per un soprannome impietoso, SuperSub.
E non perché come un sottomarino rimane nascosto per poi affondare il nemico, ma perché al Manchester City le cose migliori le ha fatte da riserva di lusso. E a Roma, in fondo, ha battuto tutti i record di segnature stagionali – meglio di sua maestà il Capitano Totti, del re Leone Batistuta, di Piedone Manfredini e di Sigghefrido Sciabbolone Volk – quando nessuno più credeva in lui, dopo una stagione imbarazzante fatta di dieci gol tra serie A e Coppe e di fesserie sesquipedali, che, a dirla tutta, continua a fare.

Un giocatore cresciuto sotto le bombe

Guarda un po’ soprattutto nei momenti decisivi. Non sa reggere la pressione? Forse no. Forse sa sopportarla troppo. Lui che è cresciuto sotto le bombe di una guerra infame, lui musulmano in un mondo squassato dalla jihad, lui che nel 1993 all’età di 7 anni fa i capricci: vuole giocare a pallone, come tutti i giorni, con i suoi amici.
Molti non li vedrà più, perché sua madre Belma si impunterà per non farlo andare a giocare. Gli mette il broncio, il piccolo Edin. Un’ora dopo tre granate si abbattono sul suo campetto. La guerra gli toglierà anche molti familiari e la casa, ma gli Dzeko da Otoka, uno dei quartieri più popolari della capitale più vivace e colorata d’Europa spenta irrimediabilmente in quegli anni di bombe, faide e fosse comuni, non se ne andranno.

«Za moje mahalce». Per i miei vicini

Il campione in quegli occhi gentili e calmi ha il sangue, il dolore della perdita, la forza del sopravvissuto. Edin non si abbatterà, in nessun caso il pallone potrà diventare per lui questione di vita o di morte. Perché lui sa davvero il valore di queste parole, di questa espressione. Una pessima stagione non segnerà il suo declino, ma per lui le partite del cuore non esistono.
Perché rispetterà la maglia che indossa, sempre, ma quella che conta per lui è quella che ha sotto, in cui c’è scritto «za moje mahalce». Per i miei vicini. Il mahal è il basso bosniaco, una strada che è comunità. Vuol dire amici, vite parallele, incroci di destini. Edin è un grande uomo, che non dimentica la sua Bosnia, neanche per sbaglio.
Quella Bosnia che lo venera e l’ha pure maltrattato – Kloc è il suo soprannome lì: vuol dire lampione, ma anche tontolone – come Roma. «Qui come a Sarajevo non ti criticano, ti insultano. Sono abituato». Più intelligente della media dei colleghi, più profondo – fa beneficienza e nella sua città torna spesso per mangiare un burek e aiutare i connazionali lontano dai riflettori -, più sensibile. Troppo: perché un bomber vero è egoista, figlio di buona donna, rapace. Ecco questo, Edin, non lo sarà mai.