Durante la finale di Champions tra Real e Juve, si è diffuso il terrore in piazza San Carlo a Torino: un boato, poi il panico. Il fuggi fuggi ha causato circa 600 feriti.

La folla che stava assistendo a Juve-Real dal maxischermo ha cominciato a muoversi e a ondeggiare: poi il caos e la gente che cadeva. Restano da capire le cause che hanno scaturito la psicosi collettiva: un petardo esploso o il cedimento di una ringhiera che avrebbe provocato il boato che ha fatto pensare a una bomba.
Era presente per Soccer Illustrated il nostro Umberto Luciani, che ci ha spiegato in breve il rischio che hanno corso centinaia di persone.
“È incredibile come i media stiano minimizzando quello che è successo stasera in piazza San Carlo.
Non so per quale incredibile miracolo non sia morto nessuno. Il comune ha a dir poco sottovalutato l’evento.
Zero controlli, e soprattutto vendita libera di birra in vetro da parte degli ambulanti. È stata soprattutto quella la causa della maggior parte delle ferite, per i cocci rotti.
In piazza non c’era un’ambulanza o un posto medico. Non è facendo finta che non sia successo niente che si risolvono queste cose. Migliaia di persone schiacciate, sangue ovunque, scarpe, zaini, cellulari abbandonati in terra.
Sembrava un film apocalittico.
È successo questo. Da in mezzo alla piazza lo schermo non si vedeva bene. Bruno ed io, allora, ci siamo spostati verso la parte destra, guardando la stazione, abbarbicati ad una delle grosse colonne che reggono i portici, davanti alla banca San Paolo. Verso le 22.30, vedo le teste davanti allo schermo che ondeggiano. E davvero come un’onda di tsunami, nel giro di 3 o 4 secondi ci si è rovesciata addosso. Puro istinto: tiro Bruno per un braccio e c buttiamo dietro la colonna, come fosse uno scoglio. Ed è stato davvero così: vedo alla mia destra un ammasso di persone che senza volontà, trascinata dalla violenza inarrestabile del flusso della folla, si schiaccia contro i muri. E sempre di più di più, altre persone, una sull’altra.
L’Heysel, ho pensato subito. Noi, riparati dietro il nostro scoglio, facevamo forza con la schiena, puntando le mani contro il muro, per conservare quei 10 cm di spazio vitale. Vicino a me una ragazza continuava a ripetere “non voglio morire”. E mio figlio mi guarda e mi dice “papà, possiamo morire? Io ho paura di morire”.
Lì ho capito che per salvare mio figlio ero disposto ad uccidere, a camminare sui corpi degli altri. Dopo circa dieci minuti così, una bolla temporale, in una specie di lotta silenziosa a difendere con tutte le forze il nostro piccolo spazio, in mezzo ai lamenti e le urla, piano piano la pressione si allenta. Vicino a me un ragazzo che perde copiosamente sangue da una ferita sotto il ginocchio, cerca di fermarlo con una sciarpa.
Ma non basta, allora strappa un pezzo di sacco di plastica dell’immondizia per tamponare. Un altro con il gomito coperto di sangue mi chiede se ho un fazzoletto. Piano piano si riconquista spazio. Ma non voglio abbandonare il nostro scoglio e la sua relativa sicurezza. Finalmente pare si possa camminare. Andiamo verso via Roma, ma di nuovo un’altra ondata. Per fortuna siamo davanti alla porta del caffè San Carlo, ci buttiamo dentro. Ci chiediamo l’un l’altro cosa sia successo, non lo sa nessuno. Riusciamo ad uscire.
Sangue ovunque, camminiamo su una poltiglia di vetri rotti, sangue, liquidi appiccicosi. E scarpe, zaini ovunque, centinaia. Almeno una persona su tre è insanguinata. Giriamo in via Santa Teresa, davanti ad un’auto dei carabinieri una donna è stesa per terra con la faccia coperta di sangue, Bruno non vuole guardare e ci muoviamo velocemente. Tutte le vie intorno alla piazza hanno del sangue per terra. Do un passaggio in auto a due ragazzi di Voghera che avevano parcheggiato in viale Marche, sono piuttosto sotto shock,e anche noi.
Chiacchieriamo per riprenderci”.