E’ un professore brasiliano di geometria del centrocampo. Il suo cognome è passato alla storia non solo perché non finiva in “-inho”, ma perché è stato il primo straniero nella rosa del Piace di Garilli. Un nome una garanzia, semplicemente Matuzalém.

Non è per nulla semplice tradire una tradizione. Spezzare riti e travolgere certezze che parevano più che granitiche.
Pensare di farlo in una piccola città di provincia poi rischia di fare sconfinare quel pensiero di trasgressione nel campo dell’utopia. Quasi si volesse cingere d’assedio la sacralità di una domenica davanti ad un piatto di anolini o di qualche regalo sistemato sotto l’albero di Natale.
Utopia, senza dubbio. O quasi. Perché anche le tradizioni più ferree possono vacillare, sentire il peso della ruggine e cedere di schianto nello spazio di una firma.
Firme che nel calcio si vedono quasi ogni giorno, soprattutto in quei mesi bollenti – per il termometro e non solo – dove il gioco più bello del mondo diventa improvvisamente il calciomercato. Schiarite e temporali improvvisi, come quello che su Piacenza si abbatte il 10 luglio del 2001. Il cielo della città si tinge del grigio delle nubi. Da un momento all’altro l’estate cede il passo alla pioggia.

Proprio come un fulmine arriva una notizia che nemmeno le rotative del quotidiano locale probabilmente si aspettavano. A Piacenza, dove in campo si è parlato sempre italiano, arriva una ventata carioca. A centrocampo sbarca il Professore, Matuzalém Francelino da Silva. Molto pià semplicemente, Matuzalém.
Piede sinistro vellutato, capace di mettere sul binario giusto i palloni per i compagni. Una cinquantina di presenze a cavallo tra B ed A a Napoli, dove di stranieri ne avevano già visti tanti. Matuzalém non è però un semplice arrivo nel mercato estivo di una squadra, quella del presidente Leonardo Garilli, che punta a qualcosa in più di una semplice salvezza inseguita fino all’ultima giornata.
Matuzalém è lo strappo, la cesura. Il momento di rottura di quella tradizione che a Piacenza nessuno si era mai sognato di cancellare. Come se da una domenica all’altra nel piatto non finissero tortelli ed anolini ma una semplice zuppa di cereali.
Il Professore si piazza a centrocampo e da lì dirige le operazioni. Per mister Cagni diventa un elemento fondamentale della squadra: le sue geometrie convergono verso il vertice dell’attacco biancorosso dove un certo Dario Hubner fa sfaceli.

Dalla paura per una tradizione infranta, alla curiosità – mista con un pizzico di diffidenza – fino ad arrivare all’ammirazione. In provincia va (quasi) sempre così. Che si parli di un evento inedito o di un calciatore.
Da quella stagione arriverà qualcosa in più di una semplice salvezza. Il record di punti nella massima serie per i biancorossi e la palma di capocannoniere per quell’attaccante di Muggia che ancora popola racconti e fantasie da fine primo tempo.
Matuzalém resterà in città il tempo di una stagione. Il tempo di stravolgere una tradizione quasi novantennale. Quella di un Piacenza autarchico in un campionato che aveva spalancato le sue porte al fascino dell’esotico e dei tanti (o troppi?) “Inho”. Quella di un presidente che guardava al bilancio come ad un calice di cristallo: trasparente e fragile ma da mantenere integro ad ogni costo, anche con qualche rinuncia. Anche a costo di far parlare brasiliano un allenatore che conosceva l’italiano ed il dialetto bresciano. Anche a costo di spezzare una tradizione.