“Papà, andiamo via?”

Lui, mio padre, ha i bicipiti tesi come catene d’acciaio trainate da draghi antologici e gli battono le mascelle. Ho paura quando gli battono le mascelle. Digrigna i denti e si formano queste rientranze nelle guance e lo fa solo se sta per perdere il controllo.
Mi sto sentendo male per il caldo, voglio sempre acqua. Non mi risponde. Sta fissando il campo verde dove ventidue uomini, undici in maglia bianca e undici in maglia rossoblù, corrono e annaspano e sudano. Il sole ustiona. I gradoni di cemento sembrano carta moschicida che aderisce alle nostre suole e ciancica ad ogni passo.
Lo convinco a suon di tiritera, di lamenti e di accennati colpi di calore. Andiamo alla porta di acciaio zincato, ma il custode non c’è. Bestemmia, papà. Dice che non sono abbastanza grande per stare al Campo a vedere il Taranto, che la prossima volta mi lascia con mamma e mi sento in colpa ma nemmeno troppo perché l’Inter la vedo sempre e mi diverto, il Taranto invece sta facendo schifo.

“Non hanno fatto manco un tiro in porta, papà!”

Lui s’ammutolisce, le braccia gli cadono lungo i fianchi.
“Torniamo su,” mi fa “il custode non c’è. Torniamo su anche se è tutta una recita”
“Che dici, papà?”
“Niente. Mo’ ti prendo dell’acqua” ma il bar era ovviamente chiuso. Anche i baristi si stavano guardando quella che era la partita del secolo, almeno lo era per chiunque avesse stampato sulla carta d’identità un paese di nascita localizzato tra Taranto e provincia. Taranto-Catania, finale playoff di C1, annata 01/02.
Torniamo sugli spalti, tra facce di ottantenni pietrificati, fumatori in nevrastenia e ragazzi disillusi che chiudevano ottimi cannelli di primero.
Una partita che ha sancito la storia delle due rispettive squadre. I Catanesi hanno inanellato una serie di vittorie che li ha portati alla Serie A, ad un altro clamoroso Cibali (3-1 sull’Inter di Mourinho, Mascara in grande spolvero); mentre noi delfini ionici…
I tre punti sospensivi sono sufficienti per sviscerare la nostra storia recente, una storia di passione cristiana, nel senso biblico di sofferenze senza nemmeno ottenere la salvezza eterna o la resurrezione. Abbiamo perso quattro ulteriori gare playoff (contro l’Avellino, l’Ancona l’Atletico Roma e Pro Vercelli). Siamo stati retrocessi nel 12/13 in serie D, e lì siamo marciti per quattro stagioni, finché nella corrente regular season abbiamo avuto la grazia del ripescaggio.
Ma quest’anno, nella ritrovata Lega Pro, ci siamo fottuti e tutti avrete sentito le magagne legate agli ultras del Taranto che schiaffeggiano e pisciano in testa ai giocatori e sì e c’avete ragione ma alla fin fine quello che conta è che siamo retrocessi, stavolta sul campo, ancora in serie D.

Gilberto d’Ignazio, uno che avrebbe marcato Zidane

Ma nel 2001/2002 c’era una situazione bellissima. La curva compatta, goliardica, colorata, argentina. Una rosa competitiva. Nicola Di Bitonto in porta, in difesa cazzodiferro Galeoto, sulla fascia Gilberto d’Ignazio, uno che avrebbe marcato Zidane.
A centrocampo Aldo Monza, tra i giocatori più iconici ed eleganti di quella serie C, un lombardo che mangiava cozze crude col limone, era il capitano. E in attacco, che ve lo dico a fare? Christian Riganò. La Curva Nord che canta Riganò-Riganò-Riganò-oh-oh RIGA RIGA RIGA NO! e le difese avversarie che hanno paura di affrontare questa bestia, orecchino e capelli lunghi da cheyenne, istinto da predatore e velocità nel girarsi che fa invidia a tanti consumati attaccanti della Serie A.
Un bel campionato, quello del Taranto. Ascoli che chiuse la stagione da primo in classifica, noi secondi a meno 5, e dietro di noi gli elefantini catanesi. Girone B di gran pregio, con Pescara, Avellino, Torres, Vis Pesaro. Trasferte compatte, la città si distende e si innamora per l’ennesima volta del Taranto Calcio. Il Prez, la piovra presidenziale operativa del Taranto era Pieroni. Per le strade si appendono luminarie rossoblù. La domenica bisogna muoversi un’ora e mezza prima per andare al Campo, allo stadio Erasmo Iacovone, ché c’è troppa folla. Ricordo mia Nonna Paola che ci preparava da mangiare alle dodici, cosicché potessimo raggiungere i tornelli e infilarci senza fretta sulle gradinate.
In campionato è finita 1-0 allo Iacovone, col Catania, l’andata. Triuzzi ha spennellato un cross sbilenco dopo una verticalizzazione tossica e precisa di Galeoto. Poi Riga ha sfasciato Iezzo, il portiere catanese, di testa. Il ritorno? 3-0 per loro. Taranto che non ha retto, catanesi inferociti per uno striscione degli ultras tarantini all’andata (tipo S. Agata, la santa vulcanica, è una zoccola).

“Scendi lava fino a Zafferana e poi brucia Catania”

Il 2 giugno, andata playoff, la perdiamo per uno a zero. Il nostro Galeoto, leader del reparto difensivo, Palermitano duro, viene colpito da qualcosa, è ferito, non si capisce un cazzo, il Cibali è fomentato e ribolle magmatico e irascibile.
Al ritorno in città si scandiscono forti i cori SUCAMINCHIA SUCAMINCHIA EH, EH! ed altre amenità come il mitologico “NOI ABBIAMO IL SOLE, NOI ABBIAMO IL MARE E VOI… SOLO LA LAVA! SCENDI SCENDI LAVA FINO A ZAFFERANA E POI, BRUCIA CATANIA!”.
Non ricordo granché della partita di ritorno, il 9 giugno 2002. Ricordo questa sensazione di inutilità, di noia, perché il Taranto che mio Nonno Gino e mio padre osannavano, quel Taranto decantato nei bar del centro città e delle periferie, si sfarinava e non concludeva un beneamato cazzo.
Si è sempre detto che il Taranto se la fosse venduta. E che i Gaucci, proprietari del Catania, avessero conoscenze addentrate in Lega Calcio. Nella semifinale col Pescara si videro in effetti episodi che un cronista grigio di provincia definirebbe controversi. Rigori e menate di questo tipo. Il comportamento del Taranto nella doppia gara finale playoff, poi, sgorgò la gola popolare dando il via a elucubrazioni, seghe mentali e ciaf ciaf da barbiere che si protrae sino ad oggi.
Torniamo sui gradoni. Non so a che minutaggio si sia, né mi interessa. I vecchi tifosi se ne stanno con le mani appollaiate dietro la schiena, statuari e tristi. Cazzarò, il giocatore più tarantino di tutta la rosa, un buon centrocampista d’interdizione, è stato sostituito dopo tipo dieci minuti di partita. Siamo saturi di orgoglio screziato. Il suo viene bollato come un infortunio ma già durante i 90 minuti si dice che è uscito per evitare di partecipare direttamente al merdaio di partita venduta. La curva Nord continua ad incitare, il coro oh issaaa oh issaaa, il SUCAMINCHIA SUCAMINCHIA EH EH con le millemila banane gialle che stantuffano su e giù per l’aria che frigge.

“Papà ma che succede se pareggiamo?”

Lui zitto. Aveva appena subito il 5 maggio interista, e adesso gli si stava spappolando ulteriormente l’amore sportivo.
Marziano viene espulso perché Iezzo, il portiere catanese, s’era accasciato a terra dopo un contrasto. Marziano non vuole perdere tempo e lo agguanta per le ascelle, lo punzecchia, dai alzati cornuto, e quello si ridesta come un cazzo di grillo parlante e lo malmena ma l’arbitro Mazzoleni espelle proprio il nostro uomo e allora vaffanculo. In tutto questo, mio padre continua a battere le mascelle.
Al triplice fischio sfolliamo, la Curva Nord si svuota per caricare i catanesi stipati nella Sud, bombe sugli sbirri sui cellulari su tutto.

La “Notte di Taranto”

Il 9 giugno 2002 è una data che a Taranto ha la stessa potenza evocativa dei bombardamenti occorsi nella seconda guerra mondiale, la cosiddetta “Notte di Taranto”.
Uno spartiacque, quella finale playoff. Ne abbiamo perse tante ma nessuna come quella.
La verità è che dopo il 9 giugno, Taranto, il Taranto e i suoi sostenitori hanno perso la leggerezza. La leggerezza di tifare, di accendere fumogeni; la leggerezza d’innamorarsi dei propri calciatori. Da quel 9 giugno, non si è più amato nessuno. Scottati, traditi, brutalizzati dalla finzione calcistica che ha solo infangato la memoria di Erasmo Iacovone. Tanta gente non mette piede al Campo da quella fottutissima partita.
Per carità, si tifa ancora, si fanno le torciate, ci si irrora di Borghetti e Birra Raffo, la risata il coro la canna rollata e fumata. Ma quella gioia pigra, sudamericana, quella appunto LEGGEREZZA di vivere non ce l’abbiamo più. Tante contestazioni, per motivi beceri spesso, hanno accompagnato gli ultimi 15 anni di storia del pallone tarantino.
Eravamo ingenuamente felici. Leggeri. Eravamo diversi.