Il 25 novembre di Nick Drake e Marco Van Basten

Nick Drake registrò solo 31 canzoni e nessuno dei suoi tre album superò le 10.000 copie vendute. Dalla sorella maggiore Gabrielle, attrice di successo, veniva descritto come il classico bravo ragazzo, anche se un po’ introverso. Un’infanzia apparentemente tranquilla, una grande passione per la musica, e una madre che scriveva canzoni per la famiglia e le cantava nella bolla di un pianoforte.
Era uno studente modello e un atleta valido (era alto un metro e novanta), studiava violoncello, clarinetto e pianoforte, ma il padre lo descriveva così: “Sembra che niente gli importi davvero. Come se ci fosse qualcosa che lo distraesse continuamente”.
Finite le superiori si trasferì a Londra, dividendo un appartamento con la sorella. Nuovi amici, nuovi ascolti. La timidezza socchiusa dalla marijuana. Era ironico con le persone che conosceva, era bello. Di relazioni sentimentali significative non c’è traccia, essere intimi è un peso troppo grande da sopportare. Forse aveva già abbandonato l’al di qua e il suo avvenire era già passato; come CB, come Sade.
Nel 1967 fu ammesso al Fitzwilliam College di Cambridge per studiare letteratura inglese. Iniziò a suonare le canzoni di Bob Dylan e Van Morrison. In quel periodo registrò anche un blues sulla marijuana; titolo: Been Smoking Too Long: “Nightmare made of hash dreams / Got the devil in my shoes / Tell me tell me what have I done wrong / Ain’t nothing go right with me / Must be I’ve been smoking too long”.
Nel 1968 incontra il produttore Joe Boyd e firma il primo contratto discografico. Il disco d’esordio Five Leaves Left esce nel 1969. Il titolo è una citazione còlta, còlta nelle cartine Rizla: è la scritta che avverte quando stanno per finire.
In giro c’era un mondo strafatto di illusioni, rabbia e tette al vento. I suoi testi parlavano d’amore, desiderio e identità. Istanze con radici diverse. Era un po’ come buttare un romantico dentro al Grande Fratello. Keith Richards poteva suonare tutto con le prime quattro corde, sol maggiore e cazzo dritto. Lui era uno sperimentatore elegante, accordature aperte, sonorità eteree, armonie evanescenti, confini slabbrati, respiri sul collo. Fruit Tree che è quasi una profezia: Safe in your place deep in the earth, That’s when they’ll know what you were really worth”. Capito?
Le vendite del primo disco (e dei successivi) furono basse. E il fatto che avesse grande difficoltà nell’esibirsi non lo aiutava. Il cantautore scozzese John Martyn, amico di Drake, spiegò bene la faccenda con una sola frase: “Quando suonava dal vivo osservarlo era straziante; era come vedere qualcuno che veniva spogliato nudo”.
Era come se amasse troppo le proprie canzoni e si sentisse in dovere di proteggerle dall’ignoranza dell’ascoltatore medio. Il mancato apprezzamento corrispondeva a una delusione fortissima, una spremuta di “odio” che lo comprimeva in uno stato depressivo. Il mio edicolante è uno psicologo mancato, ha smesso a un esame dalla laurea. Una volta gli ho chiesto perché certe persone sono fatte così. “Possiamo rilevare in questo atteggiamento alcuni tratti di personalità evitante, caratterizzato da una grande sensibilità al rifiuto, che determina difficoltà ad instaurare nuovi rapporti ed esporsi in nuove attività. La persona evitante patisce il conflitto tra un desiderio di affetto e accettazione e il ritiro dai rapporti intimi e dalle relazioni sociali per timore di risultare inadeguato e di venire criticato. Spesso questo tipo di personalità si associa a disturbi d’ansia sociale, come il timore di mangiare, parlare o, come nel caso di Drake, cantare in pubblico”.
Deluso da Dio, l’anno successivo prende in affitto una stanza ad Hampstead e inizia a lavorare al secondo disco Bryter Layter: critiche buone, vendite scarse. Il suo stato psicologico inizia a peggiorare. Era assillato anche da preoccupazioni economiche: dalla Island Records intascava solo 20 sterline a settimana; Londra è una città che strappa le tasche, si sa. L’amico e arrangiatore Robert Kirby raccontò in un’intervista al Guardian: “Penso ci fosse molto imbarazzo tra di noi, rispetto al fatto che quello che sarebbe dovuto succedere, in realtà non accadde. Il fatto che Nick avesse interrotto gli studi prima della laurea lo portava a temere di aver deluso il padre, abbassando molto la sua autostima”.
Iniziò a ritirarsi sempre di più in se stesso, divenendo una persona molto silenziosa, che riusciva a parlare prevalentemente attraverso le canzoni, e anche i rapporti con il produttore Joe Boyd iniziarono ben presto a deteriorarsi a causa del flop delle vendite dei dischi.
Nel 1971 i genitori accompagnarono il figlio da uno psichiatra: depressione. Cura a base di amitriptilina. E lui non era assolutamente propenso a curarsi con gli antidepressivi.
Tornò a vivere a casa dei genitori nel Warwickshire, ma la protezione della famiglia non lo aiutò più di tanto. Viveva un profondo senso di solitudine anche in compagnia degli amici e delle persone care, era come se non riuscisse a rendersi conto che lo amavano incondizionatamente. C’era in lui una profonda ambivalenza nei confronti della casa dei genitori, che viveva come rifugio protettivo e prigione da cui scappare allo stesso tempo. A volte prendeva l’auto dei genitori e spariva per alcuni giorni. Robert Kirby: “Arrivava e non diceva niente, si sedeva, ascoltava la musica, fumava, beveva, dormiva lì la notte e dopo due o tre giorni se ne andava. Poi tornava dopo tre mesi”.
Nel 1972 pubblicò Pink Moon, l’ultimo disco, chitarra e voce. Il brano eponimo ha un testo criptico, o forse no: “I saw it written and I saw it say, pink moon is on its way, and none of you stand so tall, pink moon gonna get ye all”. In From the morning parla di una sorta di ascensione: “And now we rise and we are everywhere”.
Dopo Pink Moon, Drake ebbe una crisi nervosa che lo portò al ricovero in un ospedale psichiatrico per cinque settimane. La convalescenza fu apatia, disinteresse per tutto, compresa la musica. L’edicolante: “È l’effetto sabotante autodistruttivo della depressione stessa. A differenza di altre malattie che possono generare reazioni di fortissimo attaccamento alla vita, le sindromi depressive possono compromettere anche l’energia vitale e la volontà, tra cui quella di guarire”.
Nel 1973 ebbe un sussulto di vita. Voleva registrare, ancora una volta. Ma era già spacciato. John Wood disse che le performance in studio furono più scadenti rispetto ai dischi precedenti, perché Drake non riusciva a registrare la chitarra e la voce insieme. “Non riesco a pensare alle parole. Non provo più niente. Non voglio né piangere, né ridere. Mi sento morto dentro”, disse in quella circostanza.
Riuscì a registrare quattro pezzi. In Black Eyed Dog c’è questo passaggio: “A black eyed dog he called at my door / A black eyed dog he called for more / A black eyed dog he knew my name”.
Per quanto ne so, in Inghilterra l’espressione “black dog” si riferisce a uno stato di umore pessimo. Dopo aver raggiunto uno stato depressivo molto grave, fatto di indifferenza quasi totale nei confronti del mondo e da momenti di blocco psicomotorio (fu trovato dalla polizia fermo da un’ora di fronte alle strisce pedonali), Drake ebbe un’improvvisa ripresa, che lo portò a trascorrere alcune settimane a Parigi. Ma verso l’autunno dello stesso anno incassò la notizia del suicidio del fratello di una sua cara amica, affetto da una depressione cronica.
È la mattina del 25 novembre 1974. Mezzogiorno passato. Nella stanza di Drake c’è un giradischi che continua a girare. La puntina è sfinita. Da ore è arrivata a fine corsa e continua a scivolare su quell’ultimo giro di vinile. Sono i “Concerti Brandeburghesi” di Johann Sebastian Bach. Sono i Berliner Philharmoniker diretti da von Karajan. Drake li aveva sentiti alla Royal Albert Hall, su quel gigantesco palco dove solo quattro anni prima era salito anche lui, a fare da spalla ai Fairport Convention. Sul comodino un bicchiere d’acqua, una manciata di pillole e un libro appoggiato sul dorso, con le pagine piegate. È un saggio di uno scrittore molto caro, è Il mito di Sisifo di Camus. Qualche sigaretta spenta, un posacenere, un taccuino con un fiume di appunti e una matita quasi senza mina. Poco altro.
Non c’erano note suicidiarie anche se lasciò una lettera per Sophie Ryde, una ragazza con cui aveva avuto una relazione più o meno platonica negli ultimi mesi. La conclusione del coroner fu: “Suicidio previa ingestione incongrua di amitriptilina” (trenta pastiglie, rispetto alla dose prescritta di tre), La sorella Giselle: “Non credo che le pillole l’avrebbero ucciso se non avesse preso interiormente la decisione di morire. Credo che l’istinto vitale sia così forte che a meno che non ci sia dentro di te la volontà di suicidarti, non riesci a morire”.
La notizia del decesso non ebbe particolare eco sui giornali. In fondo, chi lo conosceva?
Adesso qualcuno si starà chiedendo cosa c’entra questo 25 novembre 1974 con quel 25 novembre del 1992, quando il Milan a San Siro vinse 4-0 contro il Goteborg grazie a quattro gol di Marco Van Basten. Non lo so. Anzi no, lo so: è che ogni volta che penso al cigno Van Basten, mi viene in mente quella frase che Carmelo Bene disse riferendosi a lui: “Il lutto in me per il suo precoce ritiro non si estingue ancora e mai si estinguerà”. Forse provo lo stesso per Drake.
Quella sera Van Basten segnò in tutti i modi, il terzo su rovesciata, il pubblico del Meazza impazzì.
Oggi mi piace pensare che quei gol siano stati tutti per Nick Drake, uno che, a differenza di Van Basten, non è riuscito a trovare un “posto in cui stare”.
“Now I’m darker than the deepest sea / Just hand me down, give me a place to be”.
Fatelo passare.