Invertendo l’ordine degli addendi il risultato non cambia. Ce lo hanno insegnato a scuola, ma ne siete così certi in qualunque ambito?

Qualche dubbio potrebbe venirvi leggendo quanto segue, dove il nostro ultras di riferimento Edmondo Lubeck ha intervistato il giornalista della Gazzetta dello Sport Pierluigi Spagnolo, appena uscito con il libro “I ribelli degli stadi” (Odoya editore) dedicato proprio al movimento ultras e con prefazione dello scrittore Enrico Brizzi.
Un esperimento dagli esiti imprevedibili.
Possiamo solo anticiparvi che non si sono messi le mani addosso.

Pierluigi, mentre leggevo ho visto scorrere davanti ai miei occhi un mondo che negli anni non è rimasto tale, ma si è modificato profondamente. Fa sorridere il fatto che i primi rivali fossero le terne arbitrali (data l’assenza di tifoserie avversarie) per poi lasciare spazio agli sparuti tifosi arrivati da lontano, fino ad arrivare ai più celeberrimi anni ’90 con i rivali “stipati” nei settori ospiti. Iniziamo dalla fine: cosa pensi del mondo ultras attuale, comparato a quello più “dilagante” degli anni ’90?
“Sì, la violenza legata al tifo per le squadre di calcio nei primi decenni del ‘900 era molto diversa da quella di oggi. Era rivolta soprattutto verso i protagonisti in campo, i tifosi invadevano il terreno di gioco per prendersela con l’arbitro dopo un rigore non concesso o per tentare di aggredire la squadra avversaria, dopo un gol subìto. Non c’erano tifosi avversari sugli spalti (o quasi mai) e quindi non esisteva neppure una logica della contrapposizione tra gruppi, che invece esploderà dagli anni ‘70 in poi con la diffusione del movimento ultras.  Per quanto riguarda il mondo ultras attuale, ritengo che sia cambiato tanto, di pari passo con il cambiamento del calcio e della società italiana. C’è meno spontaneità, spesso un’esasperata attenzione all’estetica. E poi il calcio è diventato un affare gigantesco, un business immenso. Il calcio genera troppo denaro, e quindi dove ci sono troppi soldi tutto finisce per corrompersi e perdere l’originale dimensione etica e sportiva. Per questo in molte curve si registrano presenze di soggetti criminali, che nulla c’entrano con il tifo. Anche gli stadi sono diventati un luogo per fare soldi e le infiltrazioni malavitose ne sono una conseguenza”.
La nascita della parola “Ultras” è accostata al mondo del tifo sul finire degli anni ’60. Da quel momento si assiste a una “biforcazione” tra tifoso e ultras. Riconosci dei veri e propri fenomeni sociologici che hanno dettato questi tempi?
“Il tifo organizzato in Italia è un fenomeno degli anni ‘50 e ‘60. Già in quei decenni i tifosi si riunivano in club per sostenere e seguire la squadra. Penso ai Fedelissimi Granata del Torino, ai viola club Settebello e Viesseux della Fiorentina, ai primi Inter club nati su suggerimento diretto dell’allenatore Helenio Herrera. Ma il movimento ultras, così come lo intendiamo oggi, possiamo farlo partire dal 1968, quando a Milano nasce la Fossa dei Leoni del Milan, pochi mesi prima dei Boys-Le Furie Nerazzurre dell’Inter (poi arriveranno gli ultras di Sampdoria, Torino, e nel ’71 le Brigate Gialloblù del Verona). Non è un caso che questo cambiamento avvenga nel clima turbolento del ’68. Gli ultras ne sono un effetto diretto. Le contestazioni giovanili di quegli anni, la crescita della partecipazione politica e dello scontro generazionale hanno un effetto chiaro anche sugli stadi: trasformano i tifosi in ultras, i club in gruppi, riproducendo sugli spalti lo stesso scenario di contrapposizione forte che si respira nelle piazze. Ecco: gli ultras non hanno mai perso quello spirito ribelle e antagonista, quella propensione al conflitto, tipico di una sottocultura che vive secondo regole e codici propri. Se partiremo sempre da questa premessa, affronteremo il fenomeno del tifo estremo senza la superficialità che talvolta caratterizza alcune analisi”.

Codici non scritti di comportamento, numerose e ferme prese di posizioni di alcune tifoserie, contro l’utilizzo di lame negli scontri fra opposte fazioni. Ma poi, negli anni, abbiamo assistito a veri e propri delitti dovuti a lancio di ordigni rudimentali o appunto utilizzo di armi. Leggendo il tuo libro, purtroppo, prendiamo atto di numerose morti negli anni, accostabili al mondo Ultras. Come valuti questa escalation?
“Quando nel gennaio del 1995 a Genova venne ucciso il genoano Vincenzo Spagnolo, con una coltellata da un milanista, il mondo ultras stava davvero per avviare un serio esame di coscienza sulla deriva pericolosa che si stava prendendo. Lo striscione “Basta lame, basta infami” e il comunicato congiunto che ne seguì erano la base per ripensare l’essere ultras, frenando lo scadimento verso azioni puramente criminali. Ma poi qualcosa non funzionò, la riflessione e la svolta si interruppero. L’uso di coltelli e petardi trasforma l’ultras in un criminale, non credo ci sia da discutere su questo aspetto”.
L’ultras è spesso coinvolto in azioni di solidarietà anche a favore di tifoserie storicamente nemiche. Come ti spieghi questo contrasto nella personalità. E’ buono o cattivo? Cosa spinge secondo te l ‘ultras a mostrarsi violento per una domenica e solidale e amorevole nell’altra?
 “Nel libro cerco di spiegare che gli ultras non sono né tutti santi né tutti criminali. Sono il compagno di banco, il vicino di casa, l’istruttore della mia palestra, l’operaio e il medico. Le curve sono lo specchio fedele di quello che c’è fuori dai cancelli dello stadio, una fotografia perfetta della città, con i suoi pregi e i suoi difetti. E quindi, al di là della contrapposizione dura in occasione delle partite, quello degli ultras è anche un mondo che vive di slanci di solidarietà e di socialità fortissima. E spesso sa onorare e rispettare l’avversario più di quanto avvenga nell’ambito della politica, per fare solo un esempio”.

Accantoniamo il discorso violenza e passiamo all’abbigliamento. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla dilagante e maniacale moda “casual” che ricalca il casualismo inglese anni ’80. In Inghilterra nacque questa tendenza per confondersi tra i tifosi “normali”, con discreti risultati. Quello che ho notato in Italia è invece l’esatto contrario. Più facilità nel riconoscimento dell’ ultrà vestito con indumenti talvolta costosi e ripetitivo nelle marche: Stone Island, Ben Sherman, Lambretta, solo per citarne alcune. Non lo ritieni un po’ anacronistico? 
“Il ricorso a un abbigliamento più casual, per il mondo ultras, è stato il risultato della volontà di passare inosservati, dopo l’applicazione di norme severe contro il tifo organizzato. Quindi gli ultras hanno pensato, copiando le firm inglesi: ‘Basta con l’ostentazione dei colori della squadra, con il nome del gruppo in vista su felpe, giacconi e cappellini, vestiamoci allo stadio come se andassimo al pub con la fidanzata’. Ecco, quindi, comparire anche nelle curve italiane marche famose, un look curato, uno stile ben chiaro. Poi, forse, si è un po’ esagerato con la ricerca stilistica, finendo per essere ancora più riconoscibili, soprattutto se ci si veste con il marchio Stone Island dalla testa ai piedi”.
Vorrei chiudere con gli effetti dell’aziendalizzazione del gioco calcio, che sono lampanti e sotto gli occhi di tutti. Quando mio padre guarda le partite gli chiedo: ma la palla è ancora rotonda? Penso a squadre piene di sponsor, a partite truccate, giocatori dopati, stadi “supermercato” e chi più ne ha più ne metta…Pierluigi, ma ti emozioni ancora per un gol al 90’?
“Il calcio emoziona ancora, ma meno rispetto al passato. La fase di maggior partecipazione, quella con gli stadi sempre pieni ovunque, è stata quella tra la fine degli anni 80 e i primi anni 90. Poi, dal 1993, le televisioni a pagamento hanno iniziato a trasmettere le partite, sempre più partite alla settimana, a spalmare nel palinsesto, fino ad arrivare alla situazione di oggi. Tutte le partite in diretta tv, spalmate lungo tutta la settimana, a orari spesso improbabili per chi voglia seguire il calcio dal vivo. Così gli stadi si sono svuotati, l’attenzione per i tifosi è sparita, gli introiti dei diritti televisivi e degli sponsor hanno preso il sopravvento sulla passione. Sì, un gol al 90′ emoziona ancora ma non più come prima”.