Come si scrive del proprio eroe? Il rischio è diabetico, c’è la possibilità che venga fuori un cumulo di frasi fatte caramellizzate. Il suo nome è di per sé qualcosa di magico. Zlatan. Ibrahimović. Il centravanti simbolo degli ultimi dieci anni. Avanti, su, siamo seri. Si parlerà, che so, di Trezeguet tra una ventina d’anni? Di Tevez? Di… Lewandowski? Giocatori favolosi, ok, ma Zlatan è nato per essere un’icona. Un santo a cui votarsi. San Zlatan da Rosengard.
Col mio amico Alessio abbiamo fatto una capsula del tempo. Presi dal revival anni ’90 stile Piccoli Brividi, Oasis e Dylan Dog, abbiamo comprato una scatola ermetica di plastica e c’abbiamo schiaffato dentro pezzi di anima e suppellettili da battaglia. Una di queste era la figura ritagliata di Zlatan. Poi abbiamo sepolto il tutto in una spiaggia di Taranto, a un metro di profondità. Nel tempo, egli vivrà.
A 14 anni vivevo nel burough di Hammersmith e Fulham. Anno londinese per una famiglia del meridione appulo. Sono i colpi di testa delle mogli, che di conseguenza si ripercuotono sulla salute mentale dei loro figli ma va bene così. Abitavamo in una casa coi bovindi in stile vittoriano, proprio dietro al Craven Cottage. Quartiere pettinato, ma il sottoscritto era poi costretto a frequentare una scuola ghettizzata ai confini dell’impero: la Hurlingham and Chelsea. Le scuole pubbliche di Londra sono feccia. La mia era tra le peggiori. Risse, spaccio, tentati stupri, tensioni razziali. Un microcosmo fottuto. Io ero grosso, coi capelli lunghi, ero alto e giocavo a pallone. Difensore. Non parlavo una parola d’inglese. Giravo col vocabolarietto in tasca, una volta un negro mi stava sfottendo benché due minuti prima m’avesse aiutato in un esercizio di matematica. Però poi, mentre s’era in fila alla mensa, circondato dai suoi bruvs and fams si fa prendere dalla voglia di bersagliare il più debole e iniziano a strattonarmi, tirarmi la cravatta. Io che faccio? Invece di sbroccare tiro fuori il vocabolario, cerco l’equivalente di leccapiedi e lo chiamo così. “Bootlicker!” quelli a ridere, m’arrivano due tre ceffoni alla traditrice maniera, m’allontano.

Anche Zlatan da piccolo aveva una situazione familiare incasinata. La sorella Sanela spacciava droga, genitori separati, lui andava dalla logopedista perché non parlava un granché bene. Viveva nel quartiere di Rosengard, un ghetto per chi viene da Malmö. Si sentiva inadeguato quando frequentava la scuola di fighetti e giocava nel Malmo, perché lui veniva dal ghetto e rubava le bici agli allenatori e aveva sempre fame; mentre questi biondini svedesi purosangue, ariani a modo loro, c’avevano padri e nonni e macchine sempre pronti a scarrozzarli dappertutto. Lui al primo appuntamento con una ragazza, siccome lei tirava tardi di una mezz’ora, se ne va indispettito. Pensa che l’ha preso per il culo, che l’ha fatto per deriderlo. Ma la tipa era solo su un tram mezzo bloccato da qualche parte. Insicurezze.
Queste cose potete leggerle nel suo libro Io, Ibra, scritto con David Lagercrantz, forse il miglior esempio di letteratura sportiva che si possa trovare sul mercato. Forse il miglior libro di sempre della letteratura contemporanea.
A 14 anni io indossavo fisso una maglia di Ibra. Me la facevo nel parchetto e allo youth centre del quartiere, nella zona negra e povera di Hammersmith. Molti della Hurlingham and Chelsea venivano da quella zona di council houses di Hammersmith. I miei tormenti, a scuola, erano Issmael Mellar, Rhyss Cunningham e Tyrone Defaz. Tre negri che sfumavano in tonalità epiteliale. Nel senso: Issmael era tipo arabo, caffellatte; Rhyss un nigga che diresti della Looooouisiana e Tyrone proprio centrafricano, che so, Gabonese, CONGO, quelle terre selvagge là. Mi pigliavano per il culo davanti alle fighe, mi lanciavano le gomme in testa, io non riuscivo a rispondere nemmeno a parole perché NON PARLAVO INGLESE, NON RIUSCIVO AD AVERE LA PRONTEZZA DI RISPOSTA. “Chiama il preside o la prof!” diceva quel fenomeno di mia madre. Se… e poi mi piantano una lamata nei glutei, altro che le chiacchiere. Avevamo 4 ore di educazione fisica settimanali. Solo football, chiaro. Nessuno mi sceglieva per la loro squadra. Non ero così scarso, a Taranto giocavo spesso a pallone e avevo fatto un paio d’anni di scuole calcio, ma l’insicurezza rallentava e screziava le prestazioni.
Ecco perché m’incazzo con chi vorrebbe sparare alla nuca Santon, Kondogbia e compagnia bella. Ma sapete cos’è l’insicurezza? Ibra passava i pomeriggi nel parco del quartiere a giocare coi ragazzi. Etiopi, altri slavi, tunisini… la Svezia patria delle minoranze. Lui tentava la giocoleria, cosicché in partita potesse sbrogliare noiosi pareggi coi suoi colpi funambolici. Io, nel parchetto di quartiere, palleggiavo. Mettevo su le mie Diadora nere da arbitro Collina, e palleggiavo palleggiavo palleggiavo; chiedevo a chiunque incontrassi se volesse fare una partita. Anche uno contro uno. Provavo i doppipassi, le veroniche, i tiri di collo netto. Il venerdì uscivo da scuola alle quattro, prendevo la bici, facevo 3-4 chilometri fin’a casa, cambio (indossavamo una divisa nero blu di seta con cravatta e tutto), andavo allo youth centre e tornavo all’1 di notte. Non facevo altro che giocare a calcio. Partite, allenamenti, palleggi, semplici scatti palla al piede. Mi guardavo i video di Zlatan vs CR7 della Joga Bonito, in più Ibra segnava a scatafascio, era il primo anno di Mourinho all’Inter.

Un giovedì c’è educazione fisica. Per qualche motivo, Issmael chiede a Rhyss di giocare contro. Si fanno due squadre, è 8 vs 8. Gioco a centrocampo. Issmael mi dice di legnare, mi mima il piede a martello. Metto su la divisa da calcio della scuola, le pettorine a noi, e s’inizia. Prendo spesso palla dal portiere, arrischio finte di corpo fuori dall’area, apro sulle fasce. Gioco a testa alta. La partita dura un’ora e mezza. Siamo sul cinque a cinque. Calcio d’angolo per noi. Issmael m’ha cagato per tutta la partita. Non m’ha dato indicazioni. Quattro dei cinque gol sono stati suoi. E’ forte ma cannuso, cioè tiene la palla incollata alla suola fa’ che c’ha messo l’attacck. “Get in the fucking box!” mi grida adesso. E io ci vado, cazzo. Entro in area. Un inglese, Charlie, batte. Cross dimmerda, teso ma a mezz’altezza. Vado incontro alla palla. Non so che cosa succede. Mi sento bene. Stacco col piede sinistro, la gamba destra leggermente indietro, e col tacco destro colpisco il pallone. Sembro un Amantino Mancini in sovrappeso. Io lo so che è gol. Volo come Zlatan contro il Bologna. Contro l’Italia. Volo. GOL. Il prof fischia la fine della partita. 6-5 per noi. Rete da trapezista dell’italiano chiattone “LO-LO-LO-LORENZO!” grida Issmael, ritmando un coro sudamericano. Pezzodimmè, vorrei dirgli, ma mi faccio coprire dai compagni di squadra. Preso dalla stizza del momento, vado sotto il naso di Rhyss e gli faccio una linguaccia enooorme, agitando la testa manco stessi ballando sott’effetto di Ketamina. Poi mi metto a fare il gesto da stallone che faceva Luca Toni, la mano che armeggia attorno all’orecchio. E vaffanculo!
Ibra ha, boh, 35 anni. Gli Dei non hanno età. Lui non morirà mai. Lui è il giudice Holden del calcio. Nel suo libro, c’è un pezzo peso. Sta qua nella foto, non lo ricopio nemmeno, è fin troppo potente per i miei gusti. Bisogna essere se stessi. Esplodere di rabbia al momento giusto. Tentare la follia. Sei un tamarro? Fottitene, mettiti pure chiodo di pelle, tuta, e jordan bianche; purché ti senta a tuo agio. Zlatan è Zlatan. Quello del rigore a Julio César, sì, e quello del calcio a Cassano e delle acrobazie contro la Lazio. Zlatan non se ne fotte un cazzo. Zlatan lotta, Zlatan suda, Zlatan se ne esce con un “cazzo guaaardi!” alla bionda di Milan Channel, Zlatan prende per mano l’Inter contro il Parma e mi fa piangere, perché mi emoziono, perché a guardare questo stambecco col fisico di un pugile non faccio altro che provare brividi e sentirmi quantomeno affiliato alla sua cosca. Il mio gol preferito di Zlatan è anche l’ultimo in maglia nerazzurra. Contro l’Atalanta. Palla in area, lui che FA SALTARE PER ARIA il centrale con una spinta rabbiosa, e di tacco improvviso la scatafascia in rete. Se incontrassi Zlatan penso che lo abbraccerei. E basta, nemmeno una foto. Sarebbe sufficiente quello. Ti amo, Zlatan.
 
Articolo in collaborazione con Write and Roll Society