La mia storia tra uomini, passioni e torcidas a Rio de Janeiro, la città del Maracana e dei derby eterni.

Sono le 8:15 di un mercoledì di gennaio e bevo un caffè zuccherato come solo in Brasile può esserlo in un bar con vista su Praia do Flamengo, Rio de Janeiro. Paulo, il mio Virgilio in questa città che è insieme Inferno e Paradiso senza l’ingombro del Purgatorio, osserva con sospetto il barista, un uomo anziano, canuto e dai tratti inequivocabilmente europei.

“Tu non sei Carioca, vero?” gli chiede quando questi ci porta due panini scaldati abbastanza da far sciogliere il queijo minas, un gustosissimo formaggio leggermente acido immancabile nelle colazioni dei miei giorni brasiliani.
“No, ma sono in questa città da cinquant’anni.” risponde lui.
“L’hai capito dall’accento?” chiedo a Paulo quando il barista si allontana.
“Sì, e poi da quello.” mi risponde indicandomi un poster appeso dietro il bancone. È il poster del Vasco da Gama del ’98, l’anno della Libertadores, l’ultima vinta da una squadra di Rio.
Il Vasco, fondato nel 1898 come club di canottaggio da quattro ragazzi portoghesi, è per tradizione la squadra a cui la folta comunità lusitana della città è più legata e esibirne i simboli, portarne addosso i colori equivale quasi ad una dichiarazione di appartenenza o un omaggio alla lontana patria perduta.

Il calcio, nella città dello stadio più famoso del mondo, è davvero una fede e se i brasiliani non fossero anche ferventi cristiani probabilmente la scelta della squadra a cui si apparterrà per tutta la vita verrebbe vissuta con la solennità di un battesimo. Io stesso nei miei giorni a Rio, ospite di una famiglia di lunghissima tradizione botafoguense ho dovuto sottopormi ad uno dei loro riti e bevendo una birra gelata da un bicchiere marchiato con la stella solitaria del Bota sono entrato una volta per tutte a far parte della torcida della squadra che fu di Garrincha e Jairzinho. Dio benedica O Glorioso…
Mi capita poi una volta di mangiare del pesce fritto in una baracca sul lungo mare della splendida Arraial do Cabo. Lì il gigantesco titolare del locale, per tutti O Boi, dopo avermi offerto una cachaça distillata in casa, vuole sapere per che squadra io faccia il tifo. Scoperta con disappunto la mia passione per il Botafogo scompare nel retrobottega, per tornare solo poco dopo con un regalo. Una maglia a misura di Bue (XXXL) del Fluminense, la sua squadra del cuore, strappandomi la promessa di portargli prima o poi, nonostante l’Atlantico che ci divide, una maglia di una squadra italiana (non quella del Milan però, perché è rossonero come il Fla…).

Dunque il Flamengo… quella del Fla è indiscutibilmente la più folta e rumorosa di tutte le torcidas della Terra de Nosso Senhor. Di tutti i flamenguistas conosciuti ricordo con affetto Gilberto, un tassista. Sono seduto nel sedile posteriore del suo taxi, la radio passa i Bee Gees (cosa più frequente di quanto mai vi aspettereste in Brasile) e noto sul cruscotto due santini, San Francesco d’Assisi e Zico in maglia rubo-negra. Nel mio stentatissimo portoghese scherzosamente gli chiedo a quale dei due sia più devoto. Memorabilmente Gil risponde: “A Zico, perché ai suoi miracoli ho assistito di persona.”