Il tiro di precisione è semplice. Banale. Posizionato il pallone a terra devi colpire un punto concordato. Stop. Poche ciance. Cosa spiegare oltre? Solo il perché i giochi di strada ci hanno formati tutti. Ma proprio tutti.
Ultimamente, nella mia città, c’è stata una riappropriazione delle piazze da parte di ragazzini figli di puttana, sgamati, che indossano maglie false della Juventus ai tempi di Inzaghi e che se la giocano dalle 3 di pomeriggio fino a quando non se ne va la luce.
Ed è bellissimo. Tocchi di suola, rabone, trivele alla Quaresma. Molti mister, molti tecnici delle squadre giovanili, rimarcano questa differenza generazionale: noi magari eravamo meno improntati alla partita da un punto di vista tattico, ma stavamo sempre gettati in mezzo alla strada con un pallone tra i piedi.
Quando Adriano, l’Imperatore decaduto e auto deposto, si ritrova da solo davanti a Kalac, nell’anno domini marzo 2004, e piazza un pallonetto cinebrivido, ecco che là capisci quante ore debba aver passato in strada, giocando con pallonacci di cuoio scalcagnato, provando e riprovando le stesse stronzate.
A livello personale, senza il calcio di strada, senza le sue regole sfiancanti come l’inimitabile gol o rigore, avrei avuto una vita di merda. Il calcio di strada è la migliore forma di socializzazione che ci sia.
Al parchetto, palleggiavo sempre da solo. Il campo da basket in cemento, recintato, finiva per diventare campo da calcio e teatro di numerose sfide. L’algoritmo gestionale di questi tornei era il chi vince regna. Per dire: due squadre si sfidano, rossi contro neri. Vincono i rossi? In campo restano i rossi, sotto a chi tocca, magari i gialloblù. Questo parchetto era situato in una zona strategica, posto in una rientranza-spiazzo di uno stradone enorme che connetteva diverse aree del quartiere, unendo la zona degli immigrati, quella della working class vecchia maniera e quella dei fighettini come me.
Io non avevo una squadra, anche perché quelle rare volte che giocavo non riuscivo a esimermi da grottesche figuracce. Come quella volta che mi misero in porta, e dopo nemmeno due minuti subii un gol da fuori che mi passò in mezzo alle gambe. Ci può stare? No, per strada non ci sta.
Devi riprenderti lo status quo.
Passavo i pomeriggi a palleggiare e a fintare da solo. Stavo allenandomi a tirare la palla contro il muro della casupola del guardiano per migliorare il controllo col sinistro. Dal campetto mi gridano qualcosa. Mi ci fiondo.
«Mettiti con loro, ne manca uno!».
Sfidavamo quelli dei palazzi polacchi. Erano tutti dell’Est Europa, polish cunts, romanì, gypsy, e io invece giocavo con dei fanfaroni mezzi irlandesi.
Non esiste il fallo laterale, qui. La palla s’incuneava sotto la recinzione e allora dovevi gettarti come un cane rabbioso sulla sfera, proteggerla facendoti scudo con ogni mezzo necessario. La vittoria veniva assegnata a chiunque raggiungesse il quorum delle 10 reti. Dieci. Simbolico, eh?
A quel giro non mi misero in porta. Giocavo dietro. Le porte le contraddistinguevi per gli zaini o altre sacche della Nike che giacevano per terra come aborti venuti male.
Recupero palla in difesa. Me la allungo sulla sinistra, supero uno dei polacchi in velocità, ma è troppa, troppa… la palla scivola e vedo un avversario che mi si para davanti e allora l’intuito mi porta a tentare una veronica alla Zizou che mi riesce magicamente. Le mie Diadora aderiscono alla superficie del pallone. Lo mando fuori fase. Vedo le mani degli altri contendenti, che aspettavano il turno, infilate nella griglia-recinzione. Tutti si accalcano più vicino per vedere che cazzo posso combinare. Non so, preso dall’ansia sbarello un tiro di collo irruento e rasoterra che brucia il portiere dalla distanza.
Mi sento come a Fifa Street.
I miei fanfaroni irlandesi mi abbracciano, e io godo, mi sento fiero d’essere italiano. Ciarlo anche qualcosa tipo “this is true italian style!” e gli altri ridono.
La partita poi la perdemmo, mi sa. Roba di 10-5. Non so nemmeno quanto abbia inciso sull’esito il mio gol. Non ricordo se fosse il gol della bandiera o meno.
Da quel giorno però entrai di fatto nella squadra degli irlandesi.
Per strada, sembrerà retorica da quattro scellini, va così: contano i fatti, non le pugnette.