“O homem do destino”, “el hombre del destino” o, più semplicemente, l’uomo del destino.

Signora Dolores, non la posso far abortire. Lei deve far nascere suo figlio”. La sua storia inizia pressappoco così, con un rifiuto da parte di un medico di interrompere la gravidanza di Maria Dolores Do Santos Aveiro. Una donna come tante sull’isola di Madeira, una donna povera che fa la cameriera, profondamente cattolica ma che per ragioni economiche non può crescere un altro figlio, il quarto.
Con un marito disoccupato e alcolizzato, Maria Dolores non poteva permettersi di allargare una famiglia già di per se numerosa ma, di fronte al rifiuto del suo medico di fiducia, non poté far altro che prenderne atto e trovare un’altra soluzione a quello che in quell’estate del 1984 sembrava un problema, un peso, ma che qualche decina di anni dopo si sarebbe rivelato il vero salvatore della famiglia.
Birra scura e calda, poi di corsa su e giù per il paese”. Questo il rimedio, che dire casalingo sarebbe limitativo, che la vicina di casa diede alla signora Dolores: il questo modo il bambino sarebbe morto, risolto in modo cruento quanto duro il problema del quarto figlio.
Qualcosa però va storto, e col senno di poi diremmo fortunatamente, perché quel piano non da il risultato tanto sperato a quella donna di 30 anni che alla fine si rassegnerà all’idea: “Se la volontà di Dio è che questo bimbo nasca, così sia”. Inizia qui, praticamente ancor prima di nascere, la leggenda di uno dei calciatori più forti di ogni epoca.
Cristiano Ronaldo

Cristiano Ronaldo con la madre Dolores e il primogenito Cristiano Jr.

CR7: la nascita del mito

Che sia stato Dio, o il destino, o un caso totalmente fortuito questo non lo sappiamo, non ci è dato saperlo, fatto sta che, forse anche grazie a quelle corse su e giù per Madeira, sarebbe nato un ragazzo con un Dna differente; con qualcosa di diverso nello spirito e nel corpo. Non un semplice essere umano ma qualcosa di più, più vicino ad un semidio che ad un uomo qualsiasi.
Il 5 febbraio del 1985 sarà a posteriori una data storica per tutto il Portogallo e tutto il movimento calcistico (lo stesso movimento di cui avrebbe riscritto storia e record): venne alla luce Cristiano Ronaldo dos Santos Aveiro, semplicemente conosciuto come Cristiano Ronaldo.
Campione, divo, brand: in tre parole si può sintetizzare l’essere Cristiano Ronaldo, uno che ha spaccato in due la storia del calcio che si può dividere in un’era prima e un’era dopo la sua comparsa. Uno dei pochi che vive 24 ore al giorno 7 giorni su 7 solo per il pallone, solo per i trionfi; con l’ossessione di essere il migliore. Un atleta completo prima che “semplice” calciatore, uno che si allena prima e dopo il consueto allenamento di Valdebebas, uno che dopo ogni partita invece che tornare a casa (dove l’aspettava una certa Irina) si concede 45 minuti di criosauna al centro sportivo merengue per recuperare al meglio dalle fatiche del match ed essere pronto all’impegno successivo.
Una vita vissuta essenzialmente per il trionfo, per mostrarsi e dimostrarsi migliore di tutti gli altri. Uno al quale la rivalità con l’altro alieno, quello blaugrana, invece di demoralizzarlo lo ha reso più forte: Cristiano è arrivato ai livelli di Leo non col solo talento (caratteristica che la Pulce possiede innata in quantità industriale, facendo sembrare quasi che non abbia nemmeno bisogno di allenarsi), ma attraverso il duro lavoro sin da quando, minorenne, giocava con lo Sporting Lisbona.

Un incentivo è stato per lui Messi, una motivazione in più, una spinta per non cedergli con facilità il trono di migliore di questa epoca. Chissà se, senza l’argentino, il portoghese sarebbe arrivato fin dove è arrivato. E viceversa.
Eppure la prima immagine che forse la maggior parte di noi ricorda di Ronaldo sono quelle lacrime, amare, alla fine di Euro 2004. Si perché quel bambino di 19 anni che sarebbe diventato Cr7 da li a breve con la sua nazionale aveva raggiunto la finale nell’Europeo di casa, salvo poi clamorosamente perderla contro la Grecia. Una sconfitta indelebile nella testa di Cristiano, indelebile forse ancor più di un tatuaggio, tatuaggio che lui ha deciso di non farsi perché donatore di sangue, o semplicemente per non marchiare quel corpo ottenuto con anni di duri allenamenti. Un’altra significativa spinta è stato quel ko, quelle lacrime Ronaldo se le è portate dentro a lungo: ogni giorno, in ogni partita, in ogni pallone che lui ha toccato e calciato in porta quasi come a volerle spedire lontano tanto lui odia qualsiasi altra cosa che non sia la vittoria.
Per anni Ronaldo si è portato addosso la fama di vincente con le squadre di club ma non con la sua nazionale (trovate un’altra similitudine con chi porta la 10 a Barcellona?). “Facile vincere con Manchester o Real” si sarà sentito dire chissà quante volte Cristiano. “Facile”, una parola che Ronaldo fatica ad accettare dopo che nella vita nessuno gli ha mai regalato niente. “Per me di facile non c’è mai stato nulla” avrà pensato, meditando la sua “vendetta” sportiva.
Quelle lacrime di Lisbona Cristiano è riuscito a lasciarsele definitivamente alle spalle, ad asciugarle quasi paradossalmente con altre lacrime altrettanto amare prima, di gioia poi. 12 anni dopo la finale di casa Ronaldo si presenta a Parigi ancora in finale e destino (si, ancora quel destino di cui parlavamo all’inizio e che ha fatto arrivare i lusitani all’ultimo atto in un modo che risulta ancora ignoto) ha voluto che si scontrasse stavolta lui contro i padroni di casa. Pochi minuti, uno scontro con Payet e la resa, a terra, testimoniata da un altro pianto che è l’essenza del gioco, l’essenza di quello che può provare un campionissimo che ha vinto tutto ma che vede sfuggire l’ennesima e forse ultima possibilità di vincere qualcosa con e per i connazionali, di essere grande anche tra la sua gente. Un segno di umanità nella sua aura da divo. Non è più una superstar ora, in ginocchio sul campo di Parigi, è semplicemente un ragazzo che sta vedendo infrangersi il sogno più grande.
L’infortunio lo costringe ad uscire dal campo dopo essersi sfilato la fascia di capitano ma lui non va a curarsi negli spogliatoi, rimane in panchina, anzi affianca il ct Fernando Santos a dare indicazioni ai suoi compagni. Il gol partita quella sera di Parigi del 2016 lo segnerà un “signor nessuno” come Eder nei supplementari, quella però è stata la vittoria di Ronaldo che anche stavolta usa la sua maglia rossoverde per asciugarsi le lacrime. Lacrime che, finalmente, sono di gioia. L’impresa meno “facile” in assoluto per lui, ma che lo consegna ancor di più non solo nella storia del calcio ma anche del suo paese che, dagli anni di Eusebio, torna a trionfare in Europa grazie soprattutto ad un ragazzo che nemmeno doveva nascere. In una partita che nemmeno aveva giocato.

Ma come sarebbe stato il calcio senza Ronaldo?

E chissà cosa sarebbe successo se invece quel medico avesse accettato la richiesta della signora Dolores di praticare l’aborto, cosa se quei figli fossero rimasti 3. Banale dire che non avremmo avuto uno dei giocatori più completi, fisicamente e tecnicamente, della storia. Non ci sarebbe stato il duello con Messi, rivalità più mediatica che effettiva che infiamma l’opinione pubblica da 10 (e sottolineiamo 10) anni. Avrebbe avuto vita facile la Pulce, incensato come il migliore di tutti. “Meglio Messi o Ronaldo?” non avremmo mai sentito porre questa domanda, ripetuta quasi all’infinito quasi come un mantra in ogni trasmissione tv, intervista o speciale che tenga. Non avremmo avuto forse e soprattutto il calcio di oggi; Ronaldo è stato il calciatore che ha personificato l’essenza di brand: Cristiano è un’azienda, una ditta, un marchio che fa soldi e fa fare soldi. Una macchina, oltre che di gol, che produce denaro. Una sorta di Re Mida che ha spaccato in due anche la storia del calciomercato: prima di quell’11 giugno del 2009 nessun club si era mai spinto a spendere tanti soldi (94 milioni) per acquistare un calciatore. Guardando indietro a quei giorni possiamo dire che quell’affare fu un vero e proprio spartiacque che rivoluzionò il calcio in tutto e per tutto. Ce ne accorgiamo soprattutto oggi dopo che abbiamo passato un’estate a leggere cifre astronomiche anche per giocatori che, allo stato attuale, non sono nemmeno paragonabili al fenomeno di Madeira. I vari Bale però, i Pogba, gli Higuain; tutti affari e tutti esborsi “figli” di quella trattativa con la quale Perez portò Cristiano al Bernabeu. Chissà, se forse quel medico che sembra quasi essere diventato il vero protagonista della storia avesse concesso l’aborto oggi non avremmo avuto affari così costosi, il Real avrebbe 2 o 3 Champions in meno ed il Portogallo sarebbe ancora una mediocre nazionale a livello internazionale. Messi siederebbe quasi annoiato sul trono dei più forti, con una decina di Palloni d’oro in attesa di un degno sfidante capace di spodestarlo. L’aeroporto di Madeira avrebbe ancora un nome qualsiasi e non sarebbe intitolato a lui e la stessa isola, anche per gli amanti di Eupalla, sarebbe solo una piccola macchia nell’oceano Atlantico.

Tornerà stasera a giocare nella Liga dopo la squalifica di 5 giornate e, se in questi anni abbiamo imparato a conoscerlo bene, Cristiano sarà più arrabbiato che mai; più affamato di prima. E allora non ci resta che dare il bentornato al numero 7 del Real, con la consapevolezza che senza di lui oggi quel numero non avrebbe il significato e l’importanza che nella storia solo Best e Cantona hanno saputo conferirgli con la loro immensa classe.
E con la convinzione che la fascia sinistra di ogni campo europeo non avrebbe avuto un giocatore tanto forte da quasi nobilitarla con la sua presenza.
Non sappiamo però se ringraziare quel medico obiettore o il destino che è metaforicamente il padre di questo ragazzo, ma non ci resta che dire una cosa. Bentornato Cristiano Ronaldo.