Se “il calcio è un romanzo” è giusto che i giornalisti lascino il posto, almeno in parte, agli scrittori. E dopo Andrea G. Pinketts, che sarà tra le firme di Sport Tribune, anche Paolo Colagrande ha accettato di mettersi alla prova su Soccer Illustrated.

Parliamo di uno scrittore che con il suo romanzo d’esordio Fìdeg, pubblicato per Alet edizioni nel 2007, ha vinto il Premio Campiello nella sezione Opera prima e ha ricevuto una menzione speciale al Premio Viareggio e con il successivo Senti le rane (Nottetempo 2015) ha vinto il Premio Selezione Campiello 2015. Insomma, con la parola scritta ci sa fare. E poi è un grande appassionato di sport e calcio in particolare. Lo abbiamo intervistato, in attesa della rubrica che terrà su Soccer a partire dal numero di novembre in uscita nelle edicole insieme a Tribune.
Paolo, il calcio che posto ha nella tua vita?
«Soffro di un complesso di inferiorità: una specie di amore mai dichiarato, per mia consapevole inadeguatezza. Mi resta una visuale platonico-contemplativa, insoddisfacente, perché se provassi a parlare sul serio di una partita di calcio non riuscirei a dire una sola parola appropriata. Come esperienza diretta, cito, nel corso della vita, tre eventi calcistici topici, tutti a San Siro. Il primo risale al 1970, quando il Milan perse 2 a 1 contro il Varese. Io ero in tribuna con un compagno di elementari e tifavo Milan. C’era con noi anche mio fratello juventino che tifava Varese e mio padre che aspettava che la partita finisse. Volevo vedere a tutti i costi Rivera, che quel giorno non ha giocato. Il secondo, alla fine degli anni novanta, quando un amico interista di Novate Milanese mi aveva procurato, così diceva lui, un biglietto per Inter-Piacenza. Ma non c’era nessun biglietto: mi ha fatto entrare con la tessera di un altro. Credo che sia un reato. Ero in mezzo ad una frangia di interisti radicali il cui compito non era guardare la partita ma minacciare di morte la tifoseria biancorossa che occupava uno spicchio invisibile ai margini di una curva. Io ovviamente ero camuffato da interista, ma per salvare un brandello di orgoglio recitavo la parte l’interista critico, quello che rimarca sportivamente i pregi della squadra avversaria: una figura di tifoso che non esiste. L’Inter ha vinto 2-1 grazie a un rigore; quando il Piacenza ha segnato il gol dell’1 a 1 ho represso l’esultanza trasfigurandola in disgusto, talmente efficace che un vicino mi ha dato una manata sulla spalla: non preoccuparti, mi fa, adesso vedrai che li stendiamo, questi ladri maiali mentecatti. Il terzo, quattro anni fa, quando ho portato mio figlio a vedere Milan-Catania. Ce l’avevo col Milan senza una vera ragione, quindi tifavo segretamente Palermo (mio figlio ancora non lo sa, ed è meglio non dirglielo) che ha perso, dopo essere stata in vantaggio».

Come vedi cambiato il calcio in questi anni? Si tende sempre a ritenere “in peggio”. Ma prima i miliardi li spendevano Berlusconi e Agnelli, poi il mercato si è aperto e ora dominano gli sceicchi e i cinesi. Riesci ancora ad appassionarti?
«Il calcio di un tempo aveva i tratti leggendari dell’epica antica, ma era noiosissimo da guardare. Oggi quando guardo una partita mi sembra di essere davanti a uno schermo dove si stanno sfidando due esperti giocatori di videogames. Il passaggio da Agnelli-Berlusconi a quello degli sceicchi è un passaggio di consegne fra chi non se ne intendeva ma si stimava esperto e chi non se ne intende e se ne vanta. E’ cambiato il copione della farsa. L’atto più paradossale della farsa è la campagna acquisti dove ogni giocatore vale una legge finanziaria. Ma alla fine è sempre la stessa palla che rotola nello stesso campo, con intorno tanto pubblico. E le farse, a me, continuano a piacere».
Nei tuoi libri sono presenti richiami al calcio. Come mai?
«Il calcio, al di là dell’aspetto sportivo, è ormai un laboratorio sperimentale di concettualizzazioni, una fucina di figure retoriche, tutte però un po’ sgangherate: vanvera ricchissima e gustosa. Una discussione calcistica può toccare svariati campi del sapere, mantenendo una dimensione quasi spirituale per poi rovinare nello sfondone più rumoroso. E questo è un aspetto profondamente letterario, come è profondamente letterario Charlot in bombetta e bastone che scivola su una buccia di banana. Far parlare di calcio un personaggio che ti sei appena inventato vuol dire svelarlo nella sua più tenera umanità. E mi piace usare il lessico calcistico a sproposito, fuori dal suo contesto. Del resto il calcio è fatto di tante formule, di una bellezza quasi musicale, dei semilavorati dialettici incomprensibili già pronti per l’uso: in una discussione puoi anche smettere di pensare e cominciare ad assemblare, senza nessun calo di intensità».
Hai due figli. Qual è il loro rapporto con lo sport rispetto a quando tu eri bambino?
«Mio figlio Alessandro, di quindici anni, non ha mai giocato a calcio per una forma di idiosincrasia, ereditata da me, verso la palla e le sue incongrue dinamiche. Fa atletica leggera, tifa Milan e, in subordine, Sassuolo, con simpatie per la Spal. Ma l’approccio è più che altro teorico: la lettura della gazzetta dello sport è un lento processo di assimilazione che pretende la stessa attenzione di una versione di greco. Ma al lato pratico l’interesse si stempera: può arrivare a domenica sera senza aver guardato i risultati, che è come per un cristiano saltare la messa il giorno di natale. Del tifoso conserva solo un certo dogmatismo intransigente e una totale insofferenza verso l’obiettività. Del resto le discussioni calcistiche esulano dal confronto costruttivo: sono come partite a carte fra esperti bari, orgogliosi di esserlo. Per questo sono bellissime, a differenza delle discussioni politiche, dove i bari si stimano santi, e diventano inascoltabili. Anche mia figlia Silvia, dodici anni, fa atletica leggera (e danza moderna, non so se rientra filologicamente negli sport), è interessata al calcio solo per godere delle sconfitte del Milan e fare arrabbiare il fratello: cosa facile, negli ultimi tempi. Questo è il loro rapporto con lo sport, un rapporto che io non ho avuto. Oggi far fare sport ai figli è praticamente obbligatorio come mandarli a scuola. Quando ero piccolo, lo sport era un considerato un fattore distraente e molti genitori erano addirittura contrari, con addirittura la complicità del medico di famiglia. Si correva molto nei cortili e su per delle scale, ma non era sport in senso tecnico».

Calcio e letteratura. Proveremo, anche grazie al tuo contributo, a riportare gli scrittori a intervenire sullo sport. Come mai si è un po’ perso questo rapporto?
«Per un equivoco, sia sul calcio che sulla letteratura. La letteratura dovrebbe rappresentarci, metterci in scena coi nostri pregi e difetti, glorie e bassezze, e il calcio è una declinazione della natura umana, entrata stabilmente nel nostro testo genetico. Nel calcio c’è tutto: farsa e tragedia, ricchezza e povertà. Gli alti e i bassi della vita. Oggi si confonde facilmente la letteratura con la narrazione confezionata su temi alti e possibilmente di tendenza, da vestire di un tragico pret-a-porter. E si tende a tecnicizzare il calcio come materia solo per iniziati. Io credo – ma non voglio mettermi in cattedra – che sia compito della letteratura abbassare di livello tutto ciò che cerchiamo presuntuosamente di enfatizzare, sport compreso: abbassare di livello significa abbassare al nostro livello di uomini, cioè di esseri terrestri piuttosto sfigati: giunchi fragili, diceva Pascal, e in più “pensanti”, il che ci rende ancora più fragili. L’idea di associare scrittura e sport è un’idea eccellente, e anche una bella svolta, purché non significhi “elevare” qualcosa che è troppo umanamente bello per essere elevato».
A Piacenza il rapporto con il calcio è particolare. Dopo anni ruggenti di presidenza Garilli, si è vissuto un periodo di limbo e ora quella che era stata annunciata come una grande ripartenza sembra tardare a far tornare il club dove molti si aspettano. Come mai?
«La risposta più semplice è perché mancano i soldi. E forse è anche la risposta giusta, ma è bruttissima. L’impressione mia è che, al di là di un sorridente auspicio, la cosa non interessi davvero la città: e senza la città una squadra di calcio è orfana, anche quando ci sono miliardi da spendere. Ma abito in una città che fa fatica a farsi capire, non sono mai riuscito a conoscerla sul serio, quindi potrei sbagliarmi».
Restando alla tua città, c’è uno scrittore che da tanti anni non pubblica ma è considerato tra i letterati più influenti della sua epoca e si era cimentato anche nel racconto sportivo. Parlo di Piergiorgio Bellocchio. Dov’è finito? Non sarebbe ora di un suo ritorno?
«Piergiorgio Bellocchio non ha mai smesso di scrivere, ha solo smesso di pubblicare. Ovviamente nessun editore si farebbe sfuggire una sola virgola sua: tutti gli editori che ho conosciuto, o anche solo incontrato, mi chiedono, tutt’altro che disinteressatamente: ma Bellocchio sta scrivendo? Io rispondo di sì (perché lo so). E per chi? Domanda sbagliata. Anch’io vorrei vedere nuovi libri di Bellocchio in libreria, e sarebbe una boccata di ossigeno per i lettori. Si tratta di mettere d’accordo Bellocchio con una certa politica editoriale. Impresa difficilissima: deve cambiare la politica editoriale e, per fortuna, non Bellocchio».

Ho saputo che stai lavorando a una nuova pubblicazione. Puoi anticiparci qualcosa?
«Il nuovo romanzo potrebbe essere pronto per la fine dell’anno e quindi uscire se tutto va bene nell’estate prossima. Aspetto scaramanticamente a fare anticipazioni. Ma ci sono dei bei personaggi; almeno, a me piacciono molto e li invidio anche un po’. C’è anche una trama avventurosa: e questa potrebbe, dico potrebbe, essere la novità».
Non solo il calcio nella tua vita, però, visto che hai avuto anche ruoli di rilievo nel volley. Giusto?
«Ruoli poco seduttivi: sono stato coinvolto nella Federazione Pallavolo quando ero all’università, non come giocatore (anch’io come mio figlio ritengo che la palla sia una figura geometrica incongrua), ma come giudice sportivo. Mi interessava abbastanza, ma senza esagerare, quella parte del diritto che accidentalmente si occupa di sport (il diritto cosiddetto sportivo non esiste), e per caso, senza un vero impegno e soprattutto senza ambizioni mi sono trovato a far parte della commissione disciplinare nazionale e, contemporaneamente, a della commissione per la riforma dello statuto e dei regolamenti federali. Ho coperto anche ruoli in cui onestamente avevo poca o nessuna competenza, come ad esempio componente della commissione organizzativa dei campionati nazionali. Considero la pallavolo uno sport bellissimo e grazie a questi incarichi ho visto dal vivo gare internazionali straordinarie. Ho fatto parte anche di commissioni esecutive per la world league, dove in sostanza non c’era quasi niente da fare a parte godersi la partita da signori, dal punto più bello e comodo degli spalti. Tutto questo nel periodo massimo splendore della nazionale italiana, cioè fra la fine degli anni ottanta e i primi anni del 2000. Ma ero un po’ fuori posto. Qualche tempo fa mia figlia, trovando in casa tracce di questa esperienza, mi ha chiesto: ma cosa facevi nella pallavolo, il raccattapalle?».