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[…] E quindi indossai il mio agognato numero 11 e proprio nella partita decisiva, dove ci sarebbero stati numerosi osservatori di squadre prestigiose, poiché era raro che una squadra di paese potesse vincere un campionato di categoria cadetti.
Entrammo negli spogliatoi, dopo che il mister discusse a lungo col suo vice a proposito dell’assenza di Marco, ma alla fine mi guardò negli occhi mentre spiavo la conversazione e disse con tono deciso: “Andrea, sei in forma?”. Non aspettavo altro e infatti gli risposi: “Voglio il numero 11”.
Vincemmo 2-0 sotto un caldo sfiancante e una bolgia infernale. Il primo gol arrivò grazie a una mia volata sulla sinistra, un dribbling secco e un diagonale rasoterra colpendo il pallone d’interno collo. Il secondo con un rigore trasformato dal “pennellone” Pisano.
Fu un’orgia dirompente di suoni quando l’arbitro decretò il triplice fischio, ma quando uno per uno prendemmo la coppa in mano, io, in quell’istante e cioè con la coppa tra le mani rivolto verso il pubblico, ricordai di quando il venerdì precedente chiamai al telefono Marco. I miei genitori erano usciti e avevo la casa libera. Lui accettò l’invito. D’altronde si trattava di una tranquilla serata tra “amici” in un caldo venerdì sera di maggio e prima della gara più importante.
Ci mise solo dieci minuti ad arrivare, abitando poco distante. Ma in quel momento la partita era lontana anni luce. Entrò, salutandomi come al solito, mentre in sottofondo risuonavano i Radiohead. “Allora?” gli dissi mentre iniziammo a simulare il match con un videogame. E continuai: “Sei pronto per domani?”. E lui, tronfio: “Domani ne segno due”. Ma giocare alla PlayStation e sapere quanti gol avrebbe fatto era solo una scusa per poter mettere in pratica il mio piano. Lo invitai a salire al piano superiore per fargli vedere la mia camera dove, gli dissi, tenevo alcuni cimeli di una passione sfrenata per il calcio. In sottofondo Thom Yorke ululava sulle note di Let Down. A un certo punto si bloccò con gli occhi sgranati: “E questo da quando ce l’hai?” disse. Si riferiva al cobra reale che s’innalzava sulla teca lasciata da me appositamente aperta. “Non molto” gli risposi.
Il serpente si librava nell’aria ondulando a tempo di musica, mentre Marco azzardò: “Andrea, ma è velenoso?”. Con nonchalance lo rassicurai: “Non ti preoccupare, gli hanno tolto i denti. E’ innocuo”. E così Marco, il numero 11 del Fiorenzuola che avrebbe dovuto giocare la partita della vita, andò incontro alla sua fine. Quando fu a portata, Butraghegno – così avevo battezzato il serpente – lo azzannò a un braccio. Fece solamente un urlo strozzato. Il suo volto si pietrificò e quasi istantaneamente si formò un edema violaceo che non faceva presagire nulla di buono. Nello stesso tempo cominciò a bloccarsi il sistema circolatorio e i tessuti a necrotizzarsi. Marco, senza parole, respirava affannosamente e con lo sguardo cercava il mio aiuto. Cadde a terra in un tonfo sordo mentre cominciava a fuoriuscirgli sangue dal naso. Gli occhi sbarrati, che ancora speravano in un soccorso. Lo guardavo, finalmente dall’alto in basso, senza nessuna emozione. Riuscii a dirgli solo alcune parole:Domani sarò io a onorare la numero 11”.
Seppellii il suo cadavere tra le campagne, ma non sono dettagli così importanti. Roba da cronaca giudiziaria. Quel che ci tengo a far conoscere è ben altro. Questo diario che porto sempre con me, come già facevo quando la maglia numero 11 significava ancora qualcosa, mi serve a far sapere che per me il calcio era l’unica religione che non ammette atei, ma solo credenti. E io credevo nella maglia numero 11, che mi faceva volare sulla fascia, mi permetteva dribbling ubriacanti e gol come quello che realizzai quel famoso 16 maggio del 2006.
Marco Bevilacqua era, sì, un amico. Ma si era frapposto fra me e il mio sogno. Il mio credo. L’unica mia ragione di vita. Una vita spesa per giocare quella partita. Una partita che mi privò per sempre della libertà. Che mi rese un assassino.
Questo mio diario, che da sempre mi porto appresso, mi fa compagnia anche oggi che i compagni di cella stanno per scendere in campo nell’ora d’aria del carcere delle Novate. La maglia numero 11 giace su uno sgabello, ben piegata, ma non la indosserò. Non giocherò nessun’altra partita. Perché quel numero, senza un rivale, ha ormai perso ogni significato.