Calciopop non è solo un libro, ma un vero e proprio viaggio attraverso il mondo del calcio. Il pallone influenza diversi aspetti della nostra vita: dal cinema alla musica, dalla fede fino all’amore. Uno sport talmente importante da portare alla nascita di un universo parallelo: quello di Futbolandia, abitato da tifoserie rivali e caratterizzato da una battaglia perenne, domenica dopo domenica. Un approccio diverso al mondo del calcio, legato all’immaginario POPolare.

Nel suo libro, il calcio viene definito un fenomeno di massa. Ma cosa ha significato e cosa significa il calcio per gli italiani e quanto davvero influenza la nostra vita?
Il calcio influenza moltissimo le nostre vite. La risposta che ho cercato di darmi è esperienziale, fenomenologica. Per alcuni, il calcio è uno sport. Per altri invece non lo è affatto, citando Gianpaolo Ormezzano. Per altri ancora invece il calcio è memoria: ciò che ognuno di noi riesce a rivivere attraverso i ricordi, citando Roberto Fontanarrosa.
Se vai al museo del Genoa, un intero corridoio è dedicato a un grandissimo cantautore italiano, Fabrizio De Andrè. Se vai al museo del Grande Torino. la più grande tragedia collegata al calcio italiano, quella di Superga, è raccontata attraverso un fumetto. Se vai al museo della Juventus ci sono tutta una serie di film che raccontano storie di grande calcio, da “Santa Maradona” a “Appuntamento a Liverpool”. Questo per dire come il calcio visto da quest’ottica non sia solo uno sport ma un fenomeno sociale, un fenomeno di massa, trasversale, invasivo, che tocca tutta una serie di linguaggi, influenzando l’immaginario popolare.
Il lettore tipo per cui hai deciso di scrivere questo libro qual è? Un appassionato di calcio o un neofita? 
Il libro secondo me si rivolge a tutti coloro i quali sono appassionati di calcio. Ognuno ovviamente ha una propria concezione sia di passione calcistica che di calcio in generale, quindi l’appassionato può essere sia un neofita che un calciofilo a 360 gradi. E’ rivolto a tutti quelli che al pallone vogliono dare un’anima.
Nel libro viene analizzata la figura del tifoso anche da un punto di vista storico. Ma chi e come è il tifoso d’oggi?
Il tifoso può essere chiunque: dal medico al panettiere. Non c’è classe sociale, non c’è appartenenza politica, non c’è selettività. Coinvolge tutti. Ci sono stati ultras provenienti dal sottoproletariato e ci sono stati ultras davvero insospettabili. Il fenomeno ultras è anche molto storicizzato e nel libro infatti ho voluto approfondirlo. Il vero ultras, secondo me, è stato raccontato in un documentario del 1979 di Daniele Segre che si chiama “Ragazzi di stadio”, in cui vengono intervistati i primi ultras del Torino, all’epoca i “fighters” della Juventus.
Quando si parla di ultras però ci si ricollega inevitabilmente anche al tifo violento e alla violenza negli stadi.
Proprio riguardo questo argomento, qual è il limite tra un tifoso “normale” e un hooligan?
Il tifoso normale non ha un senso di appartenenza tribale, per cui non ritualizza comportamenti e atteggiamenti, per dirla alla Desmond Morris, che ha addirittura prodotto una scala gerarchica del tifoso. Nel libro infatti ho riportato una foto della curva del Chelsea dove si vedono gli “shed”, i pesciolini, i tifosi in primo piano, quelli più giovani che guardano i tifosi anziani alle loro spalle. Nelle curve di una volta c’era una scala gerarchica e lì ci trovavi il tifoso compassato, quello che va allo stadio solo per vedere la partita, lo sportivo, quello che è in procinto di fare qualcosa, il becero, il violento e quello che è andato solo per sottrarre lo striscione alla tifoseria avversaria.
Il mio punto di non ritorno è la morte di Vincenzo Spagnolo nel 1995 a Genova, dopo un Genoa-Milan. Il calcio non dev’essere un pretesto per la violenza e le curve non devono essere zona franca. Certo se analizziamo il fenomeno in generale, in cento anni di calcio le morti all’interno degli stadi sono poche.
Per la vastità del fenomeno le morti dovute a scontri al di fuori degli stadi a confronto sembrano poche, nonostante questo possa sembrare un’analisi fredda e poco umana.
Un altro fenomeno di massa del nostro tempo sono indiscutibilmente i social network. Qual è il loro ruolo  all’interno del contesto calcistico?
​Beh mi viene da pensare ai vari gruppi Facebook, dove ho potuto notare un riemergere di una vecchia attenzione verso il calcio, inteso sempre come fenomeno, anche storico: sorgono gruppi di collezionisti di maglie, scambi di adesivi o di materiale sportivo.
I social in questo hanno un ruolo quasi evocativo, perché ne coltivano la memoria. Un riattualizzarsi
di quel fenomeno che prima dei social avveniva tramite la rubrica del Guerin Sportivo “La palestra dei lettori”, nell’Italia degli anni ‘70, ‘80, ‘90.
Citando sempre i passi del libro, come ha fatto il calcio a interrompere il monopolio della Chiesa come fenomeno di aggregazione?

Il calcio ha rappresentato una sorta di fede laica e questo lo diceva anche Pierpaolo Pasolini, sostenendo che il calcio rappresentasse l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. Nella fattispecie italiana il calcio è riuscito a raggiungere una dimensione quasi religiosa, c’è qualcosa di fideistico nell’innamoramento nei colori sociali di una squadra .

Mettiamo che avessi la possibilità di scegliere tra una maglia originale della Roma con sponsor Barilla e una Bibbia del 1800 autentica: cosa sceglieresti?

Posto che sono cattolico e non romanista, sceglierei la maglia della Roma . La bibbia ce l’ho e per come mi arriva quella del 1800 mi arriva anche la bibbia concordata che ho in diverse edizioni. La maglia della Roma e in particolare quella Barilla è una metafora di un tempo: non a caso in copertina abbiamo Juventus-Ariston, Roma-Barilla, Inter-Misura. Erano quei sodalizi che duravano dieci anni e sintetizzavano come l’industria italiana fosse tutta in salute. Oggi invece non è così . Erano i tempi in cui gli sponsor non cambiavano ogni anno e non c’era bisogno di averne uno per ogni cosa, ora per lo stadio, ora per le tute e ora per il bordo campo .