L’ultima fatica letteraria di Darwin Pastorin emoziona al primo sguardo, colpisce dritto al cuore, risveglia vecchi ricordi e ravviva l’emozione.

L’immagine di copertina è di quelle semplici, un bambino che calcia un pallone, come lo sono stato io, come lo siete stati voi, come lo sono adesso i nostri figli e nipoti. Loro sono i giovani calciatori, ai quali lo scrittore dedica un libro che racchiude l’essenza di quello che era il football.
In un periodo storico nel quale hanno preso il sopravvento business ed interessi economici, Pastorin si rivolge ai giovani con una ‘lettera d’altri tempi’, parla di calciatori, miti, squadre e stadi leggendari, vittorie e sconfitte, gioie e tragedie.
E’ vero, nel passato spesso ci sono tristezza, malinconia, la famosa ‘saudade’, ma bisogna conoscere i tempi che furono, per ricordare che il calcio è una straordinaria metafora della vita.
Giovane calciatore, il tuo tempo è ora!


Darwin Pastorin, scrittore, giornalista, ex centravanti, si narra di un tuo gol epico, puoi raccontarci qualcosa in più?
“Da ragazzo facevo il centravanti e cercavo, in tutti i modi, di imitare il modo di giocare del mio idolo Pietro Anastasi, attaccante catanese della Juventus dalla rovesciata proletaria. Ricordo il Nagc (Nucleo Addestramento Giovani Calciatori) al Bacigalupo e al Pertusa; un provino, nel 1967, alla Juventus davanti ai maestri Pedrale e Grosso: segnai una rete, con un ginocchio, ma presero un altro, il figlio di Cinesinho, se ben ricordo. Il ‘gol epico’, ovviamente in tono nostalgico e scherzoso, fa riferimento a un mio destro nel match (1974) tra studenti e professori, prima della maturità. Una rete che, alla Osvaldo Soriano, “vesto” sempre con i panni del mito! Ho preso parte alla prima convocazione della Nazionale Scrittori, allenatore Magrini, con me c’erano Baricco, Severgnini, Favetto e tanti altri, tra narratori e poeti”.
Nel tuo libro si rievoca il passato, ricordi tristi, gioiosi, esilaranti. Quanto è importante per un giovane calciatore conoscere il passato e soprattutto, quanto i giovani attualmente sono interessati ad apprenderlo?
“E’ importante capire il passato per comprendere il presente. Questo mio libro vuol proprio essere una specie di manuale del tempo andato, di come eravamo noi, oggi adulti, da ragazzini. Quando il pallone, avvolto dal sentimento e dal romanticismo, scandito dalle voci di “Tutto il calcio minuto per minuto”, accompagnava le nostre giornate, tra partite sui campi e anche in casa (memorabili le sfide con mio fratello Fabrizio in corridoio…), allo stadio, in curva, poi le figurine Panini, il calciobalilla, gli autografi chiesti ai calciatori di Juve e Toro. Un personaggio come Gigi Meroni dovrebbe entrare nelle antologie scolastiche”.
Fra le tante reminiscenze parli del Filadelfia, un luogo magico. Nella tua carriera hai girato il mondo, quale stadio ti ha emozionato di più? Quale storia? 
“Il Filadelfia era un tempio, la culla degli Invincibili del Grande Torino. Da cronista, non potrò mai dimenticare gli anziani che, il cappello stretto tra le mani, le lacrime agli occhi, ricordavano le imprese di Valentino e degli altri assi scomparsi nel rogo di Superga del 4 maggio 1949. Giocatori come Pulici, Sala, Graziani, Agroppi, Cereser, Leo Junior si sentivano orgogliosi di far parte di quella famiglia, di quella storia. Ora il Filadelfia è rinato. Ma è un altro Filadelfia. Invito i giovani ad andare a leggere una poesia sugli eroi granata e su quello stadio scritta da Giovanni Arpino, mio maestro di letteratura”.
In un capitolo parli di autogol, un’autorete di Darwin Pastorin…
“Il calcio, come insegnava Jean-Paul Sartre, è una metafora, straordinaria, dell’esistenza. Di autogol, nella vita, ne ho commessi, come tutti, nessuno sul campo (anche perché facevo l’attaccante!): importante è saper reagire, sempre. Nel football come nella vita. Rialzarsi e ricominciare a giocare e a lottare, senza arrendersi, mai. E tutti noi dobbiamo imparare, in ogni frangente, a non sentirci male o smarriti dopo una sconfitta”.

Fra le gioie più belle c’è quella di realizzare un gol, la rete più bella di Pastorin nella vita?
“Mio figlio Santiago. L’amore assoluto della mia vita. Ha 19 anni, tifa per il Cagliari (i nonni materni sono sardi della Barbagia) ed è un appassionato di politica estera”.
Eduardo Galeano scrisse:”La storia del calcio è un triste viaggio dal piacere al dovere”. Secondo te è davvero così, ormai la filosofia è questa?
“Ho avuto la fortuna di conoscere Eduardo Galeano. Uno dei più grandi scrittori sudamericani. Era anche un appassionato di football e il suo libro ‘Splendori e miserie del gioco del calcio’ non deve mancare sul comodino di un innamorato di pallone. Il calcio è cambiato. Dico sempre: il ‘marketing’ ha sostituito il ‘dribbling’; gli affari hanno preso il posto della fantasia, la prosa ha sostituito la poesia. Ma questi sono i tempi moderni. Importante, ogni tanto, è ricordarsi che il football deve ritornare a essere ancora un piacere, un divertimento, una passione. La nostra giovinezza ripresa per mano”.
Chiudi il libro con delle “liste sentimentali”, vorrei ampliarle con sei considerazioni: tre cose che ami del calcio moderno e tre che proprio non vanno.
“Ti rispondo così: il calcio moderno ti permette di conoscere tutto, e di più, non solo in Tv ma anche sui social, sulla tua squadra del cuore. Mio figlio abita in Piemonte ma può seguire, ogni settimana, le partite del suo Cagliari; io, spesso, riesco a vedere il Palmeiras, la squadra che tifavo quando ero bambino a San Paolo del Brasile, e che un tempo si chiamava Palestra Italia ed ha avuto come centravanti un certo Josè Altafini. Oggi, a governare è il business. Procuratori, miliardi, allenamenti a porte chiuse, anche per i cronisti, oggi, è diventato difficile, se non impossibile, vedere e raccontare, troppi sono i “paletti” posti dalle società. Poi, però, comincia la partita: e al fischio d’inizio ricomincia quella magia che, da sempre, ci fa emozionare. Parafrasando Guido Gozzano e Gianni Brera: calcio mistero senza fine bello!”.
Cosa auguri ad un giovane calciatore, come lo vedi fra dieci anni?
“Di non perdere la passione per il gioco, la voglia di correre e divertirsi. Di non farsi travolgere e stravolgere dalle luci della ribalta, dal successo, spesso effimero, e dal troppo denaro. Il calcio moderno, come ti ho detto, non va demonizzato, ma è necessario un ritorno alle origini, al giocare per il giocare. Per questo, mi fa bene ritornare sui campi di provincia, in quei campi dove, lì vicino, spesso, passa il treno”.