Da Madrid a Buenos Aires sono tredici ore di volo, dodici al ritorno per via dei venti a favore. Questa la distanza fisica fra i due mondi di Diego Simeone, il continente dei successi professionali e quello dell’anima. Il Cholo però li ha sempre a affrontati con la stessa granitica determinazione che oppone ad ogni problema che la vita gli presenta, roba che se i problemi avessero memoria ormai dovrebbero essere loro a preoccuparsi un po’ quando incrociano la sua strada. Se nel continente dei successi c’è la parte più nota della sua storia, la consapevolezza tecnica sviluppata in Italia e messa a frutto in Spagna, i titoli e i soldi, nel continente dell’anima abitano le origini, ma anche la natura del suo rapporto con i tifosi, gli affetti, la nazionale, le prime e in genere le ultime esperienze delle parti che compongono la sua carriera, in una parola la sua l’identità. E la prima componente dell’identità, non c’è bisogno di scomodare dei filosofi francesi per capirlo, è il nome.
«NON SAREMO MAI I PIÙ FORTI, NON SAREMO MAI I PIÙ TALENTUOSI, NON SAREMO MAI I PIÙ RICCHI: MA POSSIAMO VINCERE».
Il suo deriva da una cittadina messicana, Chololua, – antica casa dei Mixtechi e circondata da vulcani – e sta a indicare i mezzo sangue sudamericani o, negli Stati Uniti, i membri delle gang ispaniche. A Simeone il nome di Cholo glielo appioppa però Oscar Nessi, allenatore dei pulcini del Vèlez, perché già a quell’età il ragazzino del quartiere Palermo di Buenos Aires ha addosso un’energia che da quelle parti ricorda Simeone Carmelo, storico giocatore del Vèlez e della nazionale biancoceleste. A dieci anni il neo-cholo è ritratto in foto mentre dirige una piccola orchestra di coetanei del collegio San Francisco Javier, a dimostrazione che c’è qualcosa di primordiale che lo attrae verso il bisogno di coordinare, organizzare e se volete comandare.

Nella sua biografia scansiona le tappe della sua carriera giovanile snocciolando i nomi dei suoi allenatori, quasi che parlare di sé sia una cosa sconveniente – ehi ma è una biografia – e sottintendendo che in fondo i calciatori non siano titolati ad esprimere opinioni. Per questo la storia di Simeone secondo Simeone vuole che all’età di quindici anni Victorio Spineto, dopo averlo visto segnare un gran gol, gli pronostichi che da lì a tre anni sarà in prima squadra. E così accade. A farlo debuttare, in una sconfitta, è Daniele Wellington. Nomi che non dicono molto, se non il rispetto che il Cholo ha sempre nutrito per la figura dell’allenatore, lo stesso rispetto che oggi richiede con furia quasi animale ai suoi giocatori. Alla seconda partita con il Vèlez gli dicono di entrare nel secondo tempo, lui corre in campo prima di tutti, ci rimane diversi minuti da solo, senza sapere bene cosa fare. Quando finalmente arrivano compagni ed avversari, quel diciottenne disperso per il campo sotto gli occhi ironici dei tifosi, segna. All’età di vent’anni prende il volo per l’Europa, dove spende praticamente tutta la sua carriera da calciatore, un periodo durante il quale l’Argentina diventa prima di tutto quella nazionale dove entra giovanissimo e con cui vince due coppe America, e di cui a 24 anni diventa capitano. Nel 2002 rischia di non partecipare al mondiale per un infortunio a soli sette mesi dall’appuntamento. Gli rimangono 180 giorni per rimettersi in forma, lui si appende un foglietto in casa e in palestra e ogni giorno mette una x. Alla fine sarà convocato. Argentina è anche la moglie, Carolina Baldini, una ex modella con cui stringe una relazione burrascosa finita da poco, dopo tanti tira e molla e anni in cui i due sono stati considerati dalla stampa sudamericana come i Beckham argentini: foto delle vacanze sulle spiagge di lusso di Punta del Este in Uruguay e copertine dei tabloid. Mentre il Cholo è sulla panchina del River Plate si sparge la voce di un tradimento di Carolina con un bagnino e i tifosi del Boca Juniors lo accolgono alla Bombonera lanciando dei salvagente dagli spalti.
I tifosi nella visione del mondo del Cholo sono sempre al centro, in fondo sono quelli che tengono in piedi la baracca, ma anche se nell’epoca del cholismo più spinto il Calderon, lo stadio dell’Atletico, diventa ogni due domeniche una delle bolge più infernali d’Europa, Simeone non ha mai nascosto di preferire il clima sportivo continentale a quello sudamericano. Uno dei motivi per cui il calcio sudamericano è inferiore a quello europeo per il Cholo è proprio la pressione del pubblico sui giocatori. Lui ne sa qualcosa perché da quando a metà del suo ultimo campionato al Racing gli offrono di diventare allenatore, tutta la prima parte della sua carriera di allenatore si svolge in Sud America. Anche il modo in cui avviene il passaggio è storia: tre giorni di tempo per decidere se passare dall’altra parte della barricata. Finisce con le scarpe appese per sempre.

E da lì con il Racing gioca il derby di Avellenada, il secondo classico argentino, e vive in prima persona quegli eccessi che la carriera in Europa gli aveva risparmiato: dopo una sconfitta la squadra viene presa a sassate, in un’altra occasione prima della partita il pullman con a bordo i giocatori viene inghiottito dalle ali di folla che lo fanno oscillare fino quasi a ribaltarlo. Risultato: il Cholo chiede ai suoi «come facciamo a muovere due passi sul campo con tutta questa tensione?». Perché Simeone pretende concentrazione ma sa anche che non sempre è facile, la via maestra per ottenerla è una sincerità particolarmente cholista che siete liberi di leggere come brutale.
Il Cholo però non è solo urla e facce truci, è anche rispetto e trasparenza, è un allenatore che nei ritiri prima delle partite importanti si fa il giro con il suo sta di fedelissimi di tutte le stanze da letto dei calciatori. Verso le undici, poco prima del sonno, dieci, massimo venti minuti a testa, e spiega cosa si aspetta da loro l’indomani, li motiva. Sa bene di non avere i giocatori migliori ma sa anche che nel calcio è importante nascondere i difetti almeno quanto mettere in luce le qualità, per cui vuole bene ai suoi calciatori imperfetti. Quello che gli chiede è di mettere in mostra il loro meglio e di aiutarlo a nascondere i loro lati oscuri.
D’altro canto anche lui, che ormai ha vinto tanto, non è sempre partito bene. Le sue prime partite al Racing furono disastrose e anche quando ha vinto non è sempre rimasto in cima, come quando al River Plate conquistò un campionato e si classificò ultimo in quello seguente. Tutto questo per il Cholo conta, è ovvio, ma va affrontato a testa alta, magari tornando appunto sul luogo del delitto. Una sorta di lavoro mai finito che dà la cifra di una ricerca quasi ossessiva della perfezione. Il primo ritorno è stato l’Atletico, nel mirino come detto ci sono le panchine della Lazio e dell’Inter, ma il sogno del Cholo rimane quella dell’Argentina, la nazione dove tutto è cominciato e dove ancora oggi vivono i suoi tre figli.