Dear Steven,

hai avuto una carriera lunga, bella, soddisfacente. Per molti sei stato una bandiera, un campione; per tanti un eroe; per altri un maledetto stronzo capace di un miracolo che nessuno si sarebbe mai aspettato.
Ti ho sempre stimato, almeno fino al 25 maggio del 2005, quando a Istanbul si giocò la 50° edizione della Champions League. Milan contro Liverpool. Avevo 13 anni.

Fu un primo tempo stratosferico per i Rossoneri.

Avevo appena terminato un torneo a Bergamo con la mia squadra di calcio. Dopo la doccia corsi dai miei genitori, che, per l’occasione, mi avevano seguito in trasferta: «Quanto fa il Milan?», chiesi con il sorriso sulle labbra. Ero convinto che quella squadra fosse fortissima e lo era per davvero: «1-0, gol di Paolino!», rispose mio padre. Ricordo che mi voltai e mi asciugai una lacrima di gioia, ma era presto. Maledettamente presto.

Il ritorno a casa, in pullman con i miei compagni di squadra, diventò tragicamente triste. Mi ricordo che, dopo il secondo e il terzo gol, noi milanisti del bus gridavamo, esultavamo, mentre gli altri ci guardavano ammutoliti. Nessuno poteva dirci niente. Qualche interista provava il solito: «Voi siete stati in Serie B», mentre gli juventini annuivano. Non potevano immaginare che l’anno successivo si sarebbero visti arrivare addosso un treno chiamato Calciopoli.
Eravamo felicissimi, noi milanisti. 3 a 0, vittoria in tasca. Dai, ce lo insegnano a noi esordienti, pensai: «La partita non è mai finita, ma sul 3-0 si amministra, piuttosto ci si chiude un po’ di più in difesa ma la partita si porta a casa», e invece…

L’autista dell’autobus, interista, non disse nulla per tutto il primo tempo. Mise la radio sulle frequenze che captavano la partita e mi ricordo che Maldini, raccontavano i commentatori, aveva radunato la squadra attorno a sé per caricarla. Mancavano solo 45 minuti.
Stavamo già tutti esultando, avessimo avuto qualche anno in più saremmo stati già tutti ubriachi, ma ricordo benissimo il nome che quella sera cambiò la naturale direzione del match, era il tuo: Steven Gerrard, il capitano.

Dudek parava e tu segnavi il primo gol di quella che sarebbe stata una rimonta incredibile.

Dudek chiuse la porta. Su Kakà, su Pirlo e, soprattutto, su Shevchenko. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che quella rete avrebbe dato il via al tormentone che, per anni, ha accompagnato noi milanisti, almeno finché non abbiamo vinto nuovamente una Champions: arriva un cross, tu stacchi di testa, come immagino ricorderai, e rimani in cielo un’infinita di tempo, senza che alcun difensore milanista ti contrasti. Colpo di testa perfetto alle spalle di Dida. Gli interisti esultano, gli juventini se la ridono. Noi siam convinti che il tuo sia un gol estemporaneo. Nulla potrà evitare al Milan di conquistare quella coppa. Ecco il tuo compagno Šmicer, poco dopo. É 3 a 2. Dalla radio sento un ronzio che sommessamente si chiede:

«…ma Dida che sta combinando? Cosa combina il Milan?». Non ricordo quale radio fosse, ma ricordo che il suono di quelle parole mi faceva male, tanto male.

Dudek continuava a parare, noi a soffrire… e cosa può farti soffrire più di un calcio di rigore?
Eccolo. Va Xabi Alonso. Dida para: «Wow!», gridiamo quando il commentatore dice: «Parato! Dida ha parato!», ma l’autista, dalla testa del bus, ci riporta alla realtà: «Gol!». «Come gol, cazzo! Come gol?», urlo dal fondo del mezzo. Con la faccia paonazza e intrisa di felicità, l’autista mi guarda in faccia e sfodera una perla di saggezza che non mi scorderò mai: «Eh Ciccio, se Dida c’ha le mani di merda non è colpa di nessuno!». Il tiro dello spagnolo è stato respinto dal portiere brasiliano proprio sui piedi di Alonso, che ha siglato il 3 a 3.

Dai rigori in poi… Dai primi errori rossoneri in poi… No: da lì in poi, su quel pullman, ho subito… abbiamo subito la più grossa presa per il culo della storia. Mi ha fatto male. Tanto male. Un solo nome aleggiava nella mia testa, il tuo: Steven Gerrard.

Contro di voi ci siamo presi la nostra vendetta calcistica qualche anno dopo ad Atene. Bello, certo, ma lì non ho goduto. La mia rivincita sarebbe arrivata qualche anno dopo.

Giocavate contro il Chelsea un match importantissimo per la Premier League. Eravate al termine del primo tempo. Arriva un passaggio per te che, in quel periodo, facevi il playmaker e venivi a prendere il pallone in difesa, quasi in mezzo ai due difensori centrali: «Toh!», sbagli lo stop. L’attaccante del Chelsea, se non erro Ba, si invola verso la vostra porta: gol! 1-0 e Mourinho dalla panchina esulta. Esulto con lui.

Quel brivido, però, nonostante mi avesse fatto piacere, dopo qualche secondo è sparito. Il tuo faccione è apparso sullo schermo.

Quello poteva essere l’anno della vittoria in Premier del tuo Liverpool. La consacrazione di un campione che ha vinto meno di quanto potesse fare, rimanendo sempre fedele alla propria squadra. Una bandiera.

In quel momento ho capito che essere tifoso, a volte, è sbagliato. In quel momento ho smesso di essere tifoso in quel modo. Certo, sono sempre di fede rossonera, non lo nego, ma vedo le partite sotto altri punti di vista. Guardo il calcio per il piacere di vedere questo sport, le sue giocate; per il gusto di conoscere le storie di quegli uomini che chiamiamo calciatori. E che, per qualcuno, sono bandiere, eroi, leggende, campioni.

Dopo una carriera, da troppi sottostimata, fatta di lotta, sangue, vittorie, sconfitte e tanta grinta, la verità, caro Steven, è che mi hai dato una lezione: le bandiere si rispettano, qualsiasi colore portino addosso. Sempre.

Ciao Steven, grazie.

Fabio