L’intervista alla Manager Manuela Ronchi, proprietaria di Action Agency e socia in affari di Demetrio Albertini con cui, tra le varie attività, organizza ogni anno il Gran Galà del Calcio.

Dallo Speciale Gran Galà del Calcio 2018, distribuito un mese fa anche a Pitti Uomo.

Foto di Maurizio Borsari.

Sei stata manager di celebri atleti, oggi fai parte di una realtà che affermi essere nata 30 anni fa al grido di un’unica parola: Action, che è poi il nome dell’Agenzia. Cosa ti rende felice e orgogliosa nella tua professione?

Dopo 30 anni di attività come manager e come imprenditrice, posso dire che la cosa che mi rende felice e che forse mai come nella mia società, il brand name di quello che faccio, Action, sia esattamente quello che ho fatto in tutti questi anni. Il mio orgoglio è che questa AZIONE ha a sua volta messo in azione i pensieri, la voglia di lavorare e la voglia di costruire una grande squadra di ragazzi che lavorano con passione e senso di responsabilità, come se l’azienda fosse anche la loro. Ecco, posso dire che credo che questa sia la più grande soddisfazione che uno che fa il nostro mestiere possa avere. Ho gestito tanti atleti e da loro ho imparato e attinto tanto. Mi sono laureata in lingue e letterature straniere moderne per insegnare inglese; invece poi mi sono ritrovata a fare questo mestiere per cui sicuramente non avevo studiato e applicato una teoria; ho però cercato di professionalizzare il mio istinto, la mia passione e la mia visione di come intendo fare business e ne ho creato un’agenzia, una struttura che non credo sia migliore di altre ma sicuramente diversa.

La comunicazione è radicalmente cambiata negli ultimi anni, come si è modificato il ruolo di manager e imprenditore nel mondo della comunicazione legata allo sport e al calcio?

La comunicazione è cambiata radicalmente perché sono nati nuovi media e, con l’avvento dei social e di tutto il digital, il ruolo del manager è completamente cambiato. Ora governare l’informazione è diventato ancora più complesso. Io probabilmente ho da sempre avuto un ruolo diverso da quello che è il manager tradizionale, mi sono sempre occupata della parte della gestione dei diritti d’immagine e quindi, molto probabilmente, anche già a suo tempo ho sempre lavorato in maniera molto attenta per quello che riguarda la divulgazione delle informazioni e di come un personaggio deve essere comunicato alle persone. Ho sempre fatto maieutica, come dico sempre, e ho osservato e comunicato quello che il personaggio è realmente. Oggi è più difficile farlo rispetto a come veniva fatto un tempo:

I singoli personaggi sono liberi di pubblicare e condividere la propria vita sui social e non sempre questo è governabile o facile da gestire.

Io personalmente ho appena annunciato di voler uscire dai social con la mia società proprio perché, se si sceglie di rimanerci, bisogna starci con consapevolezza e credo che oggi come oggi si ottenga più il negativo che il positivo rimanendo su questi mezzi d’informazione. Nel mondo dello sport spesso bastano un tweet o una pubblicazione su Facebook fatte in maniera sbagliata per rovinare un lavoro d’immagine costruito in anni di lavoro.

Com’è il tuo rapporto lavorativo con Demetrio Albertini?

Il mio rapporto lavorativo con Demetrio è riassumibile molto semplicemente: ogni giorno ci divertiamo e ci confrontiamo perché ci accomunano gli stessi valori, la stessa voglia di lavorare, la stessa voglia di metterci e rimetterci in gioco, la stessa voglia di imparare ogni giorno qualcosa di nuovo. Siamo curiosi, siamo orgogliosi, siamo veramente una squadra.

Qual è la più grossa difficoltà che oggi s’incontra nel comunicare lo sport?

La più grande difficoltà di comunicare lo sport oggi come oggi è che siamo ancora tutti qui ad aspettare che nascano i nuovi Pantani, i nuovi Tomba e i nuovi Pozzecco.

Invece l’obiettivo, che è proprio quello che io e Demetrio abbiamo con la nostra Dema4, dev’essere quello di potenziare il valore degli sport in quanto tali. Per esempio, fare storytelling del basket in quanto basket, con le sue valenze educative, sociali e formative e così via per tutti gli altri sport cosiddetti “minori”.

Minori rispetto al calcio, che è predominante in tutti i mezzi di comunicazione, ma che sono sport di grande valore. Noi stiamo addirittura raccontando storie di atleti e di sport che non per forza sono mediaticamente “utilizzati”, proprio perché è più faticoso cercare di comunicare i valori dello sport in quanto tale che aspettare che ci sia un atleta di grido che ne faccia da traino. Oggi il risultato è che senza i grandi atleti, certi sport si sono completamente auto-annullati.