Pensavamo di conoscere tutto, ma ci mancava ancora “La lentezza della luce” che non è una castroneria scientifica ma il titolo del nuovo libro di Michele Dalai che ce lo ha presentato in anteprima in una lunga intervista. Insomma, si è fatto un regalo per i suoi primi 44 anni. Anzi, come ama dire lui: “Sono due splendidi 22enni, io”.

Incuriosisce, a partire dal titolo. In teoria non c’è niente di più veloce della luce. Perché allora la lentezza della luce?
“Guarda in realtà è una intuizione molto semplice. Io sono stato uno sportivo di poco talento e grande abnegazione e ho sempre visto quelli forti come fossero baciati, oltre che dal talento, anche dalla luce, da una grande forza, dalla bellezza del gesto. E li ho visti andare alla velocità della luce, mentre io, come tutti quelli meno dotati, ho fatto la mia corsa con la lentezza della luce. Una luce che però è passata anche su di me in qualche modo, un po’ perché stavo vicino a loro e un po’ perché sono stato fortunato, quindi era l’esatto contrario dell’impressione di potenza, talento e virtuosismo”.
Spesso, di fronte alla sconfitta, che si tratti di un atleta o di una persona comune, si tende a gettare la spugna. Nel tuo libro sembra invece non essere così.
“Io ho iniziato a scrivere queste storie come delle storie di sportivi e dopo un po’ ho capito che raccontavano anche di me e di molti di noi. Non ci sono solo storie di sconfitti ma ci sono anche storie di stranissimi sportivi: Norris che inizia a vincere una serie di tornei, uno dopo l’altro, come gli Slam del tennis, solo dopo il naufragio del Titanic quando invece prima non riusciva a vincere nemmeno un torneo perché era ossessionato dalla precisione del gesto. C’è anche qualcosa di liberatorio, ci sono dei passaggi e dei traumi che ti liberano e a volte sono sconfitte, a volte sono dei momenti della vita particolarmente negativi. Io credo nella risalita, per farlo bisogna cadere”.
Quindi il dramma sportivo non è poi così distante dal dramma umano nella figura dell’atleta?
“E’ molto vicino. La storia di Zola Budd, per esempio, una podista straordinaria che inizia a correre semplicemente perché insegue la sorella, quella che voleva fare l’atleta, quella anche più dotata e che aveva un talento migliore di quello di Zola. Più tardi la sorella muore e lei si chiude in questa sorta di mutismo e di rabbia terribile che la trasforma nella più grande mezzofondista del mondo. L’episodio drammatico spesso coincide con quello sportivo, altre volte no. Io sono stato un pessimo podista, mi piaceva correre a piedi nudi come Zola e però ho voluto competere comunque, cioè non è ‘decoubertiniano’ il motto, però è vero che l’importante è provarci e che provarci è già una mezza vittoria”.

Nel tuo libro racconti di essere “rimbalzato” da uno sport all’altro e immaginiamo che anche tu abbia avuto un passato calcistico?
“Un passato e un presente che è durato fino a qualche giorno fa quando mi sono rotto i crociati”.
Ahia, quindi abbiamo toccato una ferita molto fresca?
“Sì, sì, che però a quarantaquattro anni è anche una specie di legittima uscita di scena”.
Anche se di questi tempi l’uscita di scena dei giocatori sembra non arrivare mai, pensiamo solo al buon vecchio Totti. Ma come giocatore e come tifoso come ti racconti?
“Guarda, io sono un innamorato dell’Inter, sono tifoso interista e non sono un buon tifoso ‘anti’, quindi tendenzialmente sono più equilibrato quando commento o guardo altro calcio. Mi piace moltissimo il calcio. Ho imparato a giocare nel tempo e sono diventato un buon difensore proprio perché ci mettevo tacchetti e grinta, però io sono di quelli innamorati proprio del gioco, ma in questo momento, come tutti quelli che amano questo gioco, soffro molto, non solo per l’Inter, ma perché vedo che stiamo assistendo a un processo di inaridimento progressivo del calcio che lo sta trasformando in un’altra cosa”.
E’ vero, il calcio sembra aver perso un po’ del suo fascino e a testimonianza di questo vedere Totti in panchina non è un bello spettacolo. Cosa ne pensi?
“Per me Totti, insieme a Roberto Baggio, è stata la cosa più bella che sia capitata al calcio italiano negli ultimi quarant’anni. E’ un giocatore irripetibile e sto soffrendo moltissimo per lui perché questa uscita di scena non è quella che avrei voluto per lui. Totti meritava, e forse lo aveva anche studiato, un grande giro di campo ideale (un po’ alla Kobe Bryant), in tutti gli stadi d’Italia. Però penso anche che sia legittimo che lui voglia uscire di scena così, come tutti gli eroi che possono scegliersi la loro morte sportiva. In questo momento la sua è una forma di cupezza e di rabbia che fa soffrire anche me”.

Quindi Totti nella storia fa la parte del vincitore. Spalletti invece fa quella del vinto?
“Spalletti non è né un vincitore né un vinto, non è neanche il coro tragico. Spalletti è un elemento estraneo a questa storia che riguarda solo Totti, i suoi tifosi e tutti gli amanti del calcio. Spalletti ha una importanza nella trama di questa storia, ma non è un protagonista”.
Tu vai spesso in Tv per parlare di sport e quindi anche di calcio. Secondo te il calcio è raccontato bene o potrebbe essere raccontato meglio?
“Guarda io non vado più in tv a parlare di calcio perché ho scoperto, dopo averlo fatto per due anni, che non ho i modi adatti. Sono tendenzialmente garbato e non riesco a fare l’opinionista semplicemente perché le mie sono opinioni assolutamente modificabili nel tempo e dialettiche, mentre quando si va a parlare di calcio nei talk calcistici bisogna avere delle opinioni repressive. Il calcio è raccontato bene perché ci sono delle persone come Federico Buffa, Paolo Condò, Giorgio Porrà che sono dei maestri del racconto del calcio. Purtroppo è raccontato molto male da tanti altri che scimmiottano più o meno con gli strumenti che hanno e fanno dei danni. Il danno poi è quello di aver trasformato la cronaca nella sostanza, cioè, il calciomercato non può essere diventato così centrale nella narrazione del calcio, perché il calciomercato per definizione è un po’ come l’ortomercato. Stiamo facendo di una funzione di sussistenza il fulcro della narrazione”.
Proprio per il fatto che le attuali testimonianza sul calcio sono un po’ quello che sono, in termini di libri o film, quali potrebbero essere quelli più indicati per avvicinare le persone allo sport più bello del mondo?
“C’è una tradizione anglosassone meravigliosa che è quella delle biografie, delle autobiografie accompagnate da ottime penne: per esempio la storiografia di George Best, oltre a una serie infinita di libri sul calcio inglese. E poi ci sono i grandissimi della tradizione italiana, leggere Brera farebbe bene a tantissimi e farebbe scoprire a molti che il giornalismo sportivo non è solo un genere di giornalismo e può diventare la cosa più trasversale del mondo. Brera era un grande, un intellettuale prestato al calcio. Si può leggere ‘Azzurro tenebra’ di Arpino, insomma ci sono tante cose che si possono recuperare e che fanno bene. Ci vuole anche qualcosa di più leggero come Luigi Garlando, che in questi anni ha imparato a raccontare il calcio anche ai bambini, perché noi ultimamente non parliamo più con i ragazzi e stiamo propinando loro una porcheria fatta di sensazionalismo, ribattute dei social, eccetera”.
A proposito di ragazzi, una volta i giocatori erano degli esempi per i nostri giovani. Oggi forse non lo sono più.
“Pretendere che i giocatori siano degli esempi fuori dal campo è sempre stato un errore clamoroso anche una volta. Pretendere invece che i giocatori in campo siano dei professionisti esemplari è una necessità assoluta, anche se adesso sono un po’ precari anche in quello. Poi ci sono quelli come voi che fanno il racconto del calcio e questa, secondo me, è una forma di resistenza al buio ed è molto interessante perché il calcio ha una sua narrazione”.
Per noi il calcio è un romanzo. Che ne pensi? 
“Il calcio ha una parte di romanzo e di scrittura che ha una sua nobiltà e che sta un po’ rinascendo”.
Guarda Michele, c’è una frase che ci ha colpiti particolarmente parlando del tuo libro e che dice: “Ci vuole talento anche nel non avere talento”.
“Questa frase dimostra che c’è la consapevolezza dell’accettazione, che è un tema molto complicato. Sia la consapevolezza che l’accettazione dei propri limiti sono il primo passo, e ci vuole talento per capirlo, perché è il punto di partenza per la risalita. Capire di non avere talento è un talento e quindi ti permette di sviluppare degli anticorpi tipo l’abnegazione, la resistenza, la forza, la rabbia agonistica, tutte cose che hanno portato quei giocatori che magari non erano destinati per qualità tecniche e talento ad arrivare dove sono arrivati e che invece sono diventati dei giocatori straordinari”.

Ora una domanda un pochino più di attualità; si sta avvicinando uno dei match più importanti per il calcio europeo ma soprattutto per il calcio italiano: Juve-Real dove la vedrai?
“In genere le partite tendo a guardarle con amici interisti e tendo a evitare il tema del gufo perché lo trovo abbastanza triste. E’ ovvio che altrettanto triste sarebbe l’espressione di tifo posticcia per cui si tifa sempre per le italiane. Juve-Real sarà una partita eccezionale come sono state eccezionali molte finali di Champions che hanno sempre avuto una linea narrativa interessante, come per esempio Atletico-Real in cui si metteva in campo tutto il ribaltamento di una storica rivalità sportiva e cittadina. Anche Juve-Barcellona, con la Juventus che arriva in finale contro i più forti del mondo e rischia di giocarsela. Quest’anno ci troviamo di fronte a due delle squadre più importanti del mondo, in due momenti diversi: la Juve infatti sta facendo un miracolo sportivo iniziato sei anni fa e che vuole colmare un gap”.
Quindi la Juve contro il Real non parte da perdente?
“Ho visto partire da perdenti poche squadre in una finale di Champions, lo stesso Atletico Madrid che ha perso due finali, la prima finale l’ha persa subendo un pareggio al novantunesimo. In queste partite qui si può ribaltare tutto, dipende solo da quanto tremano le ginocchia, ma non credo proprio che la Juve arrivi in finale da sprovveduta visto che in campo ha dei campioni del mondo e dei talenti assoluti oltre alla fame e alla rabbia che secondo me manca al Real. Anche perché la Juve ha già perso una finale e per gente come Buffon, arrivata al termine della carriera, questa può essere l’ultima occasione. Io credo che alla fine sia una partita più che equilibrata”.
Una domanda più personale. Visto che sei stato difensore e la Juve fa della difesa il suo fiore all’occhiello, se tu fossi un difensore di questa Juve, quale vorresti essere?
“La risposta è molto semplice perché giocavo a pallone molto spesso anche con amici juventini. Sono Barzagli, perché ci metto serenità, esperienza e grande amore per il gioco. A me Barzagli piace tantissimo, anche perché in lui si combinano normalità e serenità”.
Abbiamo letto il tuo libro e lo consigliamo perché i contenuti sono molto interessanti e importanti soprattutto per chi si avvicina al calcio e allo sport in generale.
“Sperem! (ride) Grazie!”.