In questa lunga intervista, Marco Negri ci racconta la sua visione di chi e cosa è un Bomber. Perché in questo ruolo ci si nasce. Così come non ci si inventa Paul Gascoigne, che lui ha conosciuto bene.

E poi di quella volta che segnò 5 gol al Dundee United con la maglia dei Glasgow Rangers nella “Partita Perfetta”, del suo sfortunato infortunio all’occhio che gli costò la scarpa d’oro e probabilmente la nazionale, passando per triplette, concerti degli Oasis, autobiografie di successo, i suoi ricordi di due campioni del mondo e del suo sempre forte ardore per questo sport. Il tutto nello stile di Soccer Illustrated. Una classica chiacchierata tra due appassionati del gioco più bello del mondo.
Oggi tutti si chiamano bomber, anche per scherzare. Ma tu che un bomber lo sei stato veramente, ci puoi spiegare cosa vuol dire?
“Ma guarda, è un nomingolo a cui sono molto affezionato, specialmente quando ti iniziano a chiamare bomber i compagni di squadra. Vuol dire che c’è un rispetto e una fiducia incredibile. Quindi è un nomingolo che mi è sempre piaciuto. Il bomber è quel centravanti che fa i gol pesanti, magari non la doppietta sul 5-0 ma il gol decisivo al ’90 che ti porta i 3 punti. Oppure quel giocatore che ti tira fuori il gol insperato dopo aver fatto una prestazione così così. Insomma secondo me Bomber significa “Decisivo”quando hai quella capacità di tirare fuori il gol insperato.  E’ un nomignolo che mi sempre è piaciuto molto quando si riferivano a me”.
Numeri alla mano, sei uno che di gol ne ha sempre fatti tanti in tutte le categorie, tra Cosenza, Perugia, poi la promozione, la Serie A, la Scozia. 
“Devo dire che “bomber” lo sono diventato a Cosenza. Anche perchè lo diventi solo quando di gol ne segni parecchi, 8/9 non bastano… A Cosenza, grazie ai miei compagni e all’allenatore, che era Zaccheroni e ci faceva giocare molto bene, di occasioni davanti ne creavamo tante. E da lì devo dire che sono andato in doppia cifra per tanti anni, senza mai calciare i rigori tra l’altro, e sono diventato un giocatore d’area di rigore, un finalizzatore a cui non servivano 5/6 occasioni da gol per farne uno. Inoltre sono molto orgoglioso che grazie ai gol mi sono sempre conquistato le categorie: In B vincendo il campionato con la Ternana dalla C1 e anche la Serie A me la sono conquistata sul campo a Perugia ed è una cosa di cui vado molto orgoglioso”.
Poi è arrivata l’esperienza ai Rangers. Come mai scegliesti i Rangers? Non era arrivata un’offerta dalla Serie A, oppure era una scelta di vita?
“In realtà è molto semplice, l’esperienza all’estero era una cosa che mi era sempre piaciuta e l’avevo sempre considerata come un’opportunità da cogliere al volo, però verso fine carriera. Era un pò il discorso che facevamo tutti all’epoca: io fui uno dei primi insieme a Vialli e Zola, che dopo aver vinto tutto in Italia a fine carriera erano andati all’estero per questa avventura. A me succede che gioco a Perugia in Serie A, faccio 15 gol però la squadra retrocede. A quel punto c’erano molte voci di mercato anche su di me perché avevo dimostrato di poter segnare tanto anche senza rigori ma soprattutto di meritare la Serie A, che a quei tempi era un campionato con Baggio, Totti, Del Piero”.
Un pò come la Premier League di oggi.
“Si, era il campionato più importante al mondo. Io mi ero messo in luce, ma in quel momento eravamo retrocessi, quindi ero un giocatore di Serie B. Certo, le trattative andavano avanti, ma senza nulla di concreto. Ed ecco che arriva la chiamata da questa squadra scozzese che io non conoscevo nemmeno benissimo, ma che poi si è rivelata una delle squadre più famose e con più tifosi al mondo. E, non te lo nascondo, con un cospicuo ingaggio e soprattutto l’occasione di giocare la Champions League mi hanno fatto prendere in considerazione questa proposta e successivamente accettarla. In Italia per giocare la Champions League allora dovevi essere un giocatore di Juventus, Inter o Milan, perchè queste erano le squadre che ci andavano. E non sarebbe stato facile per me. La Champions per me aveva un fascino particolare e ho colto l’opportunità”.

Hai ripagato la fiducia con una valanga di gol: 32 in 29 partite, 23 in soli 10 match. 
Ho fatto 30 gol già a Natale, in praticamente 3 mesi e mezzo. Poi una pallina da squash nell’occhio in una giornata libera mi rovina un po’ questa atmosfera magica, perchè veramente avevo una fiducia incredibile. Venivo da stagioni in cui facevo 18/19 gol all’anno e nel campionato scozzese se giochi nei Rangers hai tantissime occasioni da gol. Io in quel periodo giocavo veramente bene e avevo questa voglia pazzesca nelle conclusioni. Fatto sta che questo incidente all’occhio mi rovina un po’, un po’ tanto per la verità, quella atmosfera quasi magica che era venuta a crearsi. Al rientro faccio si qualche gol, ma non sono più quella Gol-Machine di inizio campionato, come mi chiamavano allora”.
La tua partita migliore è stata quella dove hai segnato 5 gol al Dundee United. E’ anche quella che ricordi con maggior piacere?
“Beh sai, 5 gol li sogni da bambino, ma sono una cosa che magari rimane lontano dalla realtà. Io ho avuto la fortuna di segnarli questi 5 gol in una partita che chiamo ‘La Partita Perfetta’, perché riuscii a segnare di testa, d’opportunismo, con dei pallonetti. Diciamo che è una partita dove davvero dimostro tutte le mie qualità. Una partita dove la fortuna mi bacia e abbraccia, però ci vuole anche quella! Onestamente è un match per cui mi ricordano ancora dopo tanti anni perché fare 5 gol non è così comune”.
Con i gol poi arriva anche il successo e tu l’hai raccontato: i paparazzi, l’invito degli Oasis ai concerti. Un periodo abbastanza scioccante, immagino, soprattutto per la rapidità con cui è arrivato.
“Sì, anche perché in Scozia non mi conoscevano, ero un nome emergente in Italia ma all’estero nessuno mi conosceva. Avere un impatto del genere, segnare per dieci partite consecutive, fare doppiette, poi partite con quattro o tre gol… insomma, avevo fatto spalancare gli occhi a tutti. Era tra l’altro il famoso anno in cui si rincorreva il decimo titolo di fila, vincendolo avremmo sorpassato il Celtic, gli acerrimi rivali, che ne avevano vinti 9. C’era un entusiasmo in città davvero incredibile. Poi quella squadra lì, con Laudrup, Gascoigne, Richard Gough, Albert e tutti i nazionali scozzesi, rimarrà nel cuore di tutti i tifosi. L’entusiasmo era a un livello altissimo e come in Italia, chi fa gol occupa un posto speciale nel cuore dei supporters”.

Eri una rockstar. C’è qualche episodio che ricordi dei tifosi che hanno fatto qualche follia?  
“C’è stata una cosa simpatica (ride). Mi è arrivata una volta una lettera allo stadio, avevamo appena vinto 7-1 la nostra partita e io avevo fatto 4 gol. Mi arriva questa lettera il giorno dopo con una schedina di un tifoso che aveva giocato la nostra vittoria, una mia tripletta e altre cose tra cui che il primo gol della gara fosse mio. Era una bella scommessa, gli sarebbe fruttata qualcosa come 2.000 sterline. E in questa lettera mi diceva scherzosamente che aveva perso la schedina per colpa mia, che avevo fatto 4 gol anziché solo 3, ma di continuare così che ero entrato nel cuore dei tifosi. Insomma, io sono stato una sorpresa per loro come loro lo sono stati per me, perché a questi livelli non pensavo di avere un impatto tale. Come in Italia, lo straniero che arriva ha sempre bisogno di qualche mese per ambientarsi, agli allenamenti, alla lingua, alla cultura, all’alimentazione, io invece partii con l’acceleratore schiacciato al massimo e avevo dato buone sensazioni”.
Poi, come ci hai già accennato, arriva quel maledetto giorno in cui la pallina da squash ti ha in parte rovinato la carriera. Dopodiché il Vicenza, Bologna, Livorno, Perugia fino al ritiro nel 2005. Dopo tutto quel successo il ritorno al calcio di provincia, cosa hai pensato? Cosa passa nella mente di un calciatore? cosa prova?
“Sai, dopo tanto tempo chiaramente ne parli tranquillamente, ma non ti nascondo che quando è successo tutto questo, da un giorno all’altro per colpa di una stupida partita di squash… è dura da digerire. C’erano voci di nazionale, ero in testa per distacco nella classifica per la scarpa d’oro e tutto andava bene. Poi c’è stata la partita di squash, quella pallina, il distacco della retina. E lì pensi tante cose. Un giocatore lo sa che l’infortunio è sempre dietro l’angolo, lo metti in conto. Ma questo lo reputo diverso. Avevamo allenamento tutta la settimana tranne il mercoledì, mentre in Italia eravamo abituati ad allenarci tutti i giorni. Quindi io cercavo sempre di tenermi in allenamento. Ma anziché decidere di andare a correre da solo in un parco avevo deciso di andare a fare una partita di squash con Porrini, perché è un gioco di movimenti rapidi, un po’ come quando stai in area di rigore, e per me era un allenamento fondamentale e sembrava utile. La seconda volta che gioco a squash arriva questa pallina a 100 all’ora nell’occhio, distacco della retina, sangue nell’iride, non potevo più vedere. Poi il laser, i mal di testa. E’ difficile da mandar giù. Non torni più quello che eri, e vedi tutto quanto, il campionato, la scarpa d’oro e la nazionale scivolare via e inizi a farti un sacco di domande e recriminazioni. Se sei in alto, come si dice, quando cadi ti fai più male. Ed è quello che è successo a me. E’ stato difficile da digerire, certo, dopo tanti anni mi ritengo fortunato per quello che ho fatto e che sono riuscito a fare. Certo, quel ‘come sarebbe andata’ senza quello stupido incidente… torna alla mente ogniqualvolta qualcuno mi fa questa domanda”.
Con Porrini tutto a posto? Vi siete chiariti?
“E’ stato un incidente.Per giocare a squash servirebbero degli occhialini, ma quel giorno nella palestra non c’era scritto niente. Il muro era grande, lui ha tirato verso di me, però sicuramente non voleva colpirmi. Fatto sta che è andata così. Come ero stato baciato dalla fortuna a inizio campionato, la sfortuna qui ha voluto colpirmi”.

Come hai raccontato nel tuo libro, il successo per un calciatore è un po’ una ruota. Si intitola “Moody Blue”, con cui ti sei scoperto scrittore e sei arrivato candidato ai Cross Sport Book Awards, un altro bel traguardo.
“E’ stata una soddisfazione enorme. E’ nato tutto un po’ per caso perché mai avevo pensato di scrivere un libro su di me. Poi un giorno un giornalista scozzese me lo ha proposto e abbiamo iniziato a mettere già i primi capitoli. A me la cosa piacque un sacco, lui poi dovette abbandonare per problemi relativi alla sfera personale. Però a me la cosa era piaciuta e sono andato a ritroso. Eravamo partiti da Glasgow e io mi sono riallacciato e ho fatto un percorso inverso riguardando com’è stata la mia carriera da ragazzo, gli esordi ma anche prima, con tutti i sacrifici, tutte le cose belle ma anche brutte, tutti gli errori che uno compie nella vita. E’ uscito il mio libro italiano: ‘Marco Negri, più di un numero sulla maglia’, e poi chiaramente è stato bello farlo uscire anche in Scozia, perchè gran parte della mia carriera e delle cose interessanti sono successe là. Poi oltre ai tanti tifosi che hanno voluto e letto il mio libro, e che mi hanno fatto dei bellissimi complimenti c’è stata questa ulteriore nomination che vale tanto perchè è un premio della critica. E’ arrivata questa nomination tra i 6 libri di autobiografia sportiva migliori a livello internazionale. Poi non ho vinto, nonostante la bellissima cerimonia a Londra ma come tutte le cose che si fanno senza troppe aspettative, regalano grandi soddisfazioni e sei contento comunque vada”.
Marco, tu hai giocato con Paul Gascoigne. Compie 50 anni. Ti chiedo due aspetti di Paul, per primo quello più pazzo, insomma l’episodio più strano in cui l’hai visto protagonista.
“A me definirlo pazzo non piace visto che lui è un genio. E’ stato un genio, e come tutti i geni sai… sono sempre al limite. Ogni tanto esagerano e lo oltrepassano, però io lo ricordo sempre come un persona geniale. Gli scherzi erano all’ordine del giorno, capitava che ti cambiavi dopo l’allenamento e ti sparivano i vestiti, perché a lui magari piaceva il colore o erano profumati, gli piaceva e se li metteva. Oppure una volta in allenamento, durante lo stretching fece pipì sulla gamba di un nostro compagno di squadra che non la prese proprio bene (ride). Una persona veramente iperattiva nel pensare e nel fare cose, e come ti ho detto, geniale in campo e fuori anche se alcune volte la linea del genio veniva superata e si esagerava. Ma ho un ricordo fantastico di lui. Lo ricordo come una persona di cuore, una persona che se avevi bisogno era la prima a farsi avanti”.
Cosa provi a vedere le foto di Paul in quella che si può definire una tragedia personale?
“Eh… provo tanta tristezza e tanto dispiacere. Ma anche la sensazione di poter fare ben poco. Si vorrebbe aiutare tutte queste persone, ma come ben sai, se queste persone non iniziano un certo processo e lo accettano c’è poco da fare. Li puoi aiutare sì, ma quell’aiuto rimane una parentesi e poi ricadono negli stessi errori. Mi dispiace tanto che sia stato magari spesso circondato da persone che amavano più il Gazza personaggio che Paul Gascoigne e non l’hanno aiutato a suo tempo, quando magari si poteva fare qualcosa di più. Sono contentissimo quando lo vedo nei suoi periodi buoni, quando fa le comparsate in Tv o lo vedi fare delle riunioni con i tifosi ed è evidente che è contento e mi dà veramente felicità. Chiaro che poi quando leggi certe cose sulla stampa che va ad accanirsi… vorresti aiutarlo ma ti senti inerme. E’ la cosa che più mi rammarica”.

Hai conosciuto anche Gattuso. Ai tempi era molto giovane, ora fa l’allenatore. Come lo vedi?
“Io ho giocato con due campioni del mondo come Gattuso e Materazzi, ed entrambi avevano alcune caratteristiche simili. Una voglia di vincere e di dimostrare a tutti di farcela anche con tutto contro. Anche se tecnicamente non erano sopraffini c’era questa voglia di vincere che era da fuoriclasse. E infatti entrambi hanno vinto tutto quello che c’era di vincere. Con Gattuso ci ho giocato insieme sia al Perugia che nei Rangers giovanissimo. E devo dire che è stato da sempre un giocatore molto intelligente perché ha capito quali fossero le sue caratteristiche positive che lo avrebbero fatto emergere e ha sempre puntato su quelle: ha basato tutto sul dinamismo, sulla grinta, sulla voglia di vincere e sul fatto di essere un trascinatore. E credo che anche da allenatore queste caratteristiche te le porti dentro e le trasmetti sia da giocatore ai tuoi compagni che da allenatore ai tuoi ragazzi. Poi non ho visto giocare il Pisa quindi non saprei dirti quali sono i suoi pensieri da allenatore, ma sono sicuro che la squadra non molla fino al 95esimo e avrà sicuramente un carattere e avrà coeso tutto lo spogliatoio perché era nelle sue corde già quando giocava. Però ho ricordi stupendi, sia di lui sia, ti ho fatto un altro nome, Marco Materazzi. Sono due ragazzi che hanno vinto tutto, che hanno fatto delle carriere strepitose, quasi uniche. Eppure quando a distanza di anni ci si rincontra, rimangono sempre quei ragazzi che ho conosciuto e c’è sempre tanto rispetto tra di noi. Insomma ho un bellissimo ricordo di entrambi.

Arriviamo a due talenti italiani che si crede un po’ sprecati: Balotelli e Cassano. Sono molto diversi, ma da Bomber, secondo te a Balotelli cosa manca per diventare grande?
“Guarda, credo sia un discorso che hanno già affrontato tutte le tv, tutti i giornalisti e tutti gli psicologi del mondo e nessuno ha trovato una soluzione. Io penso che onestamente siano entrambi dei giocatori con un talento incredibile e quindi questo talento ti dà delle aspettative enormi, perché quando vedi dei calciatori che trattano la palla in maniera speciale e trovano soluzioni che altri non hanno, è normale che le aspettative si alzino. Per diventare un grandissimo giocatore però, il talento ti fa arrivare fino ad un certo punto. Ma se non hai un etica dello sport, del lavoro, non lavori duro, non lavori costantemente sul campo per migliorare, se non hai un atteggiamento giusto con i compagni, non diventi parte integrante del gruppo e rimani estraneo, è chiaro che questo talento non ti basta. Io credo sia quello che è accaduto a loro, penso che attorno a loro ci siano state aspettative enormi. Secondo me Cassano ha dimostrato un po’ di più, le giocate e i gol sono tanti e ha giocato in piazze importanti. Con Balotelli rimane invece quel senso di incompiuto, e quella sensazione di “magari poteva far di più” e di come poterlo aiutare. Però come dicevo prima, certe cose devono partire da lui, perchè poi gli anni passano, perdi la brillantezza ed è un po’ più difficile sistemare il tutto”.
Oggi uno che sta facendo molto bene è Gabbiadini che, anche se con caratteristiche diverse, può ricordare un po’ la tua carriera. Anche lui si è ritrovato in Inghilterra, sta segnando molto ed è sicuramente un professionista.
“Chiaramente è un peccato quando un talento italiano debba andare a cercare spazio all’estero, oggi abbiamo bisogno veramente di tutti i talenti possibili in Italia da crescere soprattutto per far crescere il nostro calcio ai livelli in cui era prima. Chiaro che andare a giocare all’estero, quando lo feci io era una notizia da prima pagina, adesso invece è già nell’ordine delle idee. Però non è facile soprattutto per un attaccante, andare all’estero e avere tanto spazio perché ogni nazione in cui vai, ogni campionato in cui giochi ha le proprie caratteristiche e le proprie regole e devi essere bravissimo a buttartici dentro senza tergiversare. Quando vai all’estero e inizi facendo gol e belle prestazioni, soprattutto se sei un attaccante, tutto ciò aiuta nell’inserimento”.

Sui social ti vediamo ogni tanto nelle foto, che giochi a calcio, a calcetto o in partite benefiche. Insomma, la passione per il calcio non finisce mai, nemmeno dopo la carriera professionistica.
“Assolutamente. Faccio ancora delle partite di beneficenza soprattutto coi Rangers, che hanno proprio una squadra di leggende che vanno in giro a scopi benefici, ma anche in Italia quando me lo chiedono sono proprio felice di andare. Sono un pò meno felice il giorno dopo in cui non riesco a muovermi (ride). La passione è sempre quella, quando smetti magari non ti manca tanto la partita quanto lo spogliatoio, la risata e queste partite sono l’occasione di rivedere compagni che non vedi da tanto, raccontarsi storie o tirare fuori vecchie storie successe negli spogliatoi quindi è pur sempre un piacere. Poi io faccio molti camp anche per bambini, sarò a Perugia col Milan Camp, ho lavorato spesso anche negli Stati Uniti, a Portland e Seattle con la CAC che è una compagnia di Milano. Quindi è chiaro che ho sempre giocato a calcio, e la passione è sempre grandissima e quando mi chiamano per giocare sul campo anche con i bambini non dico mai di no”.
Sempre in attacco ovviamente.
“Sempre in attacco, a correre ci pensavano gli altri!” (ride)