«Tuya, Hectòr!».
Se vi trovate in Uruguay e vi sentite rivolgere questa frase, significa che qualcuno vi ritiene persona degna di fiducia. Hectòr è Hectòr Scarone, detto anche El Mago. In Uruguay, dove il fùtbol è religione, è considerato uno dei più grandi di tutti i tempi.
La frase gli venne rivolta da un altro grande campione di una delle più forti Nazionali di tutti i tempi, la Celeste a cavallo tra gli anni 20 e 30, Tito Borjas: Olimpiadi del 1928, ad Amsterdam, finalissima contro i nemici di sempre, quelli che stanno al di là della Plata, gli argentini. Tra Borjas e Scarone non c’è grande amore: due primedonne, sono ormai mesi che giocano nella stessa squadra ma non si parlano. Non si ricordano neanche perché. Ma al 73°, sull’1-1, Borjas riceve un cross dalla sinistra. Con la coda dell’occhio intuisce che sta arrivando come un razzo Scarone, sulla destra: e allora, di testa e di cuore, gli passa la palla e quella frase: «tua, Hector!». dentro c’è la stima, l’acredine, l’affetto e la rivalità che li aveva divisi.
«Tuya, Hectòr»: come dire, guarda cosa ti sto dando, ora dipende da te, vedi di farcela, io mi fido. E fa bene, perché Scarone segna e dà l’oro alla Celeste. Al Centenario di Montevideo «Tuya, Hectòr» è un detto ricorrente. Lo stadio venne costruito l’anno dopo la conquista dell’oro olimpico e avrebbe dovuto ospitare i primi Mondiali di calcio.
I lavori iniziarono nel luglio del 1929, e furono organizzati tre turni di lavoro per riuscire a essere pronti in un anno. Ma il 1929 non era un anno fortunato: piogge torrenziali si abbatterono su Montevideo, e così la data di inaugurazione dello stadio non coincise con la prima partita dei Mondiali, che fu disputata in un piccolo impianto da soli 1000 spettatori. Ma fu lo stadio della prima finale della Coppa del Mondo. Uno stadio enorme. E di nuovo, come alle Olimpiadi, di fronte i cugini dell’altra riva del Rio de la Plata. A oggi, infatti, rimane l’unica finale del Mondiale cui non abbia partecipato una squadra europea. Ma in Sudamerica si giocava «El Campeonato de Fùtbol» già dal 1917, mentre nel vecchio continente gli Europei si sono disputati solo a partire dal 1960. E in quei Mondiali si qualificarono terzi gli Stati Uniti. Uruguay e Argentina si affrontavano davanti a 90mila spettatori (ma c’è chi dice 100mila, difficile andarlo a verificare oggi). L’Argentina chiuse il primo tempo in vantaggio per 2-1. Ma, nonostante la superiorità tecnica, la «garra charrùa» degli uruguaiani alla fine ebbe la meglio: grazie a veloci contropiede, i padroni di casa si imposero per 4-2. Ecco, la garra: il Centenario ne trabocca, di quella grinta unica e sanguigna, che forse davvero deriva dal popolo Charrùa, gli indios di quella zona, abituati a dure condizioni di vita.

È tradizione consolidata che i giocatori dell’Uruguay abbiano dentro quella ferocia agonistica che li rende indomabili e spesso antipatici agli avversari, perché non mollano un centimetro, o piuttosto ti mollano, sì, ma un calcione, quando riesci ad andargli via. Il Centenario – che si chiama così perché celebrava i cento anni della promulgazione della Costituzione – si è conservato praticamente uguale per 86 anni. Porta bene all’Uruguay: in questo stadio la nazionale ha giocato 38 partite di Coppa America, vincendone 31 e pareggiandone 7, senza mai perdere. È monumento nazio- nale del calcio dal 1983.
Il simbolo del Centenario è la «Torre de los Homenajes» che si sta- glia sulla tribuna Olímpica per 98 metri. La Torre è in cemento armato, ed è in stile Art Decó. Oltre alla Nazionale, qui gioca il Peñarol e qualche volta il Nacional, quando ci sono partite particolarmente importanti di Copa Libertadores o i derby. È lo stadio delle inaugurazioni storiche: la prima partita di Coppa Intercontinentale si è giocata qui, nel 1960, vinta dal Real Madrid.
Si dice che i giocatori ospiti sentano il peso intimidatorio dello stadio quando entrano nel tunnel degli spogliatoi, molto stretto. Ci sono storie quasi di terrore, tra i giocatori delle al- tre squadre sudamericane; a quanto pare quelli che lo patiscono di più sono i cileni: su 23 partite, 16 sconfitte e 7 pareggi. La Colombia, dal 1957 a oggi, è riuscita a portar via una sola vittoria. L’Argentina ci ha vin- to per la prima volta solo nel 2006.
Questo stadio ha ospitato per 7 volte la finale della Copa America: e ogni volta, l’Uruguay ha vinto la competizione. «Nel Centenario i giocatori uruguaiani sentono il peso della storia, si sentono più grandi e forti – disse Chei- to, un giocatore del Colo Colo – e poi i tifosi ci tirano di tutto, quando battiamo gli angoli: pietre, monete, pile».
Nel 2011, poi, il Centenario è stato il teatro della festa più recente e grande che il calcio celeste ricordi: dopo aver bat- tuto 3-0 il Paraguay nella finale della Copa America in Argentina, gli eroi charrùa, tornati a Montevideo, hanno fatto il loro ingresso nello stadio alle 3 di notte. 35mila persone in delirio li aspettavano. Nella concitazione del ritorno, i giocatori non avevano neanche cenato: Furlan allora postò un tweet di- cendo che i Campioni avevano fame: centinaia di pizzerie risposero all’appello, inondando il Centenario di cartoni di pizza margherita e quattro stagioni. Il difensore centrale Lugano aveva vinto il premio fair play, e il suo compagno Abreu disse: «Be’, è come se avessero dato il Nobel della pace a Bin Laden».
 
 
Parole di Umberto Luciani
Disegni di The Pine & the Apple