Oltre la solita filastrocca che declamano Tino Asprilla e quelli come lui: l’alcol, le donne, le risse e le auto. Parole già dette. A Tino bisogna dedicare l’attimo, quel momento in cui le sue giocate stravolgevano fisica e logica, un inconsapevole artista del pallone, miracolo baricentrico, capace di devastare geometrie perfette per ricomporle di istinto in un’altra traiettoria che gonfia la rete.

Irrazionalità fatta a pallone e uomo. La favola scomposta di un personaggio generato in un Paese in cui ricchezza, potere, sesso e povertà si incrociano per scolpire esistenze e destini, big-bang antropologico che in ogni istante determina caos e procreazione. Tino Asprilla, eroe subtropicale, da quella parte della Colombia popolata dai pronipoti degli schiavi, dove la festa batte la miseria con megawatt di ritmiche pubiche sparate da stereo giganti tutti cromati. La regola dell’eccesso, del massimalismo, anche perché il pragmatismo porterebbe a constatare che non si possiede niente. Un diamante dalla faccia sporca che poteva essere spazzato via dalle sue origini. E invece ha vinto il suo talento imperfetto e irrazionale, consacrandosi oltreoceano, addirittura nel format più squadrato dell’arte pedatoria, ovvero l’Europa. Si dovrebbe parlare al presente di lui, perché le sue giocate stupiscono i nostri ricordi, anche se provenienti da decadi addietro di Domeniche Sportive.

Tino Asprilla
Tino Asprilla

Calciatore sudamericano all’ennesima potenza che significa soprattutto fare a modo suo, spesso appellandosi a retoriche seriali legate al proprio sangue e all’identità nazionale

Ancora leggenda a Parma: in tanti lo seguivano negli allenamenti, con occhi puntati sul suo sorriso a denti sgranati, pronto ad aprirsi dopo prodezze freestyle o gag da clown regalate al pubblico. Come quando improvvisava pennichelle, sdraiato su un filo d’ombra dietro il pilone del campo. Tanto estro ed ego, Tino è ancora la sua autobiografia vivente su Twitter, dove è un Asprillah con la H finale come Deborah, il suo modo di essere fine. Lo vediamo scherzare, partecipare a tornei di ex o giocare coi suoi cavalli: a volte mette sulle loro teste i suoi cappelli da cowboy. Gli è sempre piaciuto raccontarsi e diventare cronaca, dall’alcol, poco prima di qualche partita, alle liti stradali, ai colpi di pistola in campo per spronare i compagni, ai suoi record sessuali che ha recentemente conclamato facendo da testimonial per il lancio di una sua linea di profilattici. Si è sempre considerato uno dei migliori al mondo, svantaggiato per non aver mai giocato nelle squadre prime della classe. Calciatore sudamericano all’ennesima potenza che significa soprattutto fare a modo suo, spesso appellandosi a retoriche seriali legate al proprio sangue e all’identità nazionale, quel «Dios, patria y familia», incipit più che metaforico che racchiude l’enfasi dei Paesi che in quel continente si sentono messi da parte, specie in ambito pedatorio, dove Brasile e Argentina hanno per troppo tempo dettato le regole.
Proprio contro i biancocelesti Tino mette a segno la sua storica doppietta e la Colombia trionfa per 5-0: è il 5 settembre del 1993, tutto il Paese deflagra, si proclama la festa nazionale, la musica invade la diretta stadio e il cronista piange e tira calci. In quelle notti vengono concepiti tanti bambini, battezzati Tino, Rincon o Valderrama, nazionalismo sudato che colora gli animi di persone che interpretano la propria esistenza incuranti di conseguenze e danni. Eroe di Tuelca, Parma e Newcastle, gioiello dall’epoca in cui i giocatori sbagliavano meglio e si pettinavano di meno. Con Tino Asprilla, anche il calcio è stato divertimento.