Il giocatore più forte di tutti i tempi, e provate a dimostrare il contrario

L’amarcord di vent’anni si celebra in piscina. René ha perso appena un po’ di tono, ma il fisico rimane quasi uguale a quello dei tempi in cui giocava a calcio ai massimi livelli. Dall’acqua un amico gli lancia il pallone, e lui rifà ciò che aveva fatto a Wembley vent’anni esatti prima: si lancia in avanti sollevando le gambe in alto dietro la schiena e respinge il pallone coi talloni. Poi precipita in acqua accompagnato da gridolini d’entusiasmo. Non è come atterrare sull’erba di uno stadio da leggenda, ma va bene anche così. Contava dimostrare d’essere ancora capace di farlo. Quel gesto che adesso ha un nome, ma quella sera a Wembley non aveva un termine che potesse descriverlo.
Per i giornalisti presenti fu il panico. Loro un nome alla cosa devono sempre darlo, ma come diamine chiamare quella parata da manicomio che René Higuita aveva compiuto su un tiro di Jamie Redknapp? Una risposta non c’era, perché non esisteva un nome per la cosa. Sicché bisognava ricorrere a delle perifrasi linguistiche anche farraginose, e questo rendeva ancor più frustrante il compito se si pensava all’immediatezza del gesto. Circa un secondo fra il tiro e la parata, e un fiume di parole pensate e poi scritte per descrivere quell’attimo. Uno scarto abissale fra la realtà e la sua rappresentazione. Vent’anni dopo, mentre René riemerge sorridente dalla piscina, le parole alla cosa sono state date: il colpo dello scorpione. Un’immagine che descrive perfettamente il tipo di coordinazione usata per respingere il tiro avversario: mettere per un attimo da parte la natura di creatura verticale per convertirsi in creatura orizzontale, trasformare le estremità inferiori del corpo in estremità posteriori, e portarle in su per respingere la minaccia. Ma quel colpo è scorpionesco anche guardando alla sua natura o offensiva e non soltanto difensiva. Perché lo scorpione nel momento stesso in cui si difende avvelena, e dunque o offende anche in un sol gesto. Lo stesso succede con la parata fatta a imitazione dello scorpione: che respinge la minaccia dell’attaccante ma anche gl’inocula il veleno della frustrazione. Perché quello non soltanto vede rintuzzare il proprio tentativo d’offendere, ma subisce anche uno sberleffo. «Paro il tuo tiro pure a testa in giù» gli manda a dire quel matto da legare. E dopo essersi visto opporre una risposta del genere, quando mai il povero tiratore s’azzarderà a riprovarci?

Higuita e la mossa dello scorpione
Higuita e la mossa dello scorpione

L’ERRORE CONTRO IL CAMERUN A ITALIA 90 SCATENÒ I SUOI DETRATTORI, CHE VEDEVANO IN LUI UN FENOMENO DA BARACCONE

Vent’anni prima era successo esattamente questo, durante un’amichevole finita 0-0. E davvero altro risultato non avrebbe potuto esserci al termine di una gara in cui si vede e effettuare una parata così. Come una dichiarazione di guerra al gol di cui gli attaccanti prendono atto, e poi si ritirano a meditare sulle contromisure da prendere. Eppure a distanza di due decenni qualcuno proverebbe a sminuire il colpo dello scorpione che René Higuita compì quel 6 settembre 1995. Costui direbbe che la parata avvenne in una fase di gioco fermo. Come del resto lo stesso René riconobbe subito, senza provare a far sembrare le cose diverse da quello che erano state sul campo di Wembley. L’arbitro aveva fischiato per sanzionare un’irregolarità, e il tiro di Jamie Redknapp era avvenuto dopo il fischio. Dunque se anche fosse stato gol non sarebbe valso. E ciò, secondo chi provi a sminuire l’importanza di quel colpo, gli toglierebbe significato perché effettuato al riparo dalle conseguenze negative. Intendendo così che non possa esserci virtuosismo senza rischio, e che dunque l’esibire a gioco fermo un gesto come quello è soltanto smargiassata.

UN PORTIERE SENZA PAURA

Un argomento abbastanza meschino, il cui torto principale è quello di partire da un’altrettanto meschina idea su Renè Higuita. Che in campo era puro istinto, e da quell’istinto si sarebbe lasciato catturare anche durante una fase di gioco regolare. Ma è soprattutto l’aspetto del rischio a essere menzionato a vanvera. Perché se nella storia del calcio c’è stato qualcuno che mai ne ha avuto paura, costui è René Higuita. È questo aspetto che ne ha fatto, a suo modo, il più grande calciatore di sempre: un portiere che giocava il pallone coi piedi prima d’essere obbligato a farlo dal regolamento come tutti i suoi colleghi, e andava a calciare le punizioni dal limite dell’altra area di rigore, e sfidava in dribbling gli attaccanti avversari. Faceva tutto ciò sapendo che prima o poi l’errore sarebbe arrivato, e che a quel punto tutti gli avrebbero dato addosso perché non aspettavano altro. Lui lo sapeva, e quasi andò a consegnarsi all’errore durante un’occasione della massima visibilità. Se proprio doveva accadere, che fosse nel più spettacolare dei modi possibili.

Il dribbling folle di Higuita
Il dribbling folle di Higuita

L’ISTANTE PIÙ LUNGO

È il 23 giugno 1990, al San Paolo di Napoli si disputa fra Colombia e Camerun l’ottavo di finale dei mondiali. La gara è stata per lungo tempo bloccata, e pure abbastanza noiosa. I tempi regolamentari si sono chiusi sullo 0-0, e dunque bisogna andare ai supplementari. Anche nel primo tempo extra il risultato non si sblocca, ma poi con l’inizio del secondo giunge una prodezza di Roger Milla che porta in vantaggio la nazionale africana. A quel punto la Colombia ha poco tempo per rimediare, e si lancia all’attacco forzando la propria natura di squadra che privilegia il football cadenzato. E con la squadra all’attacco, va da sé, René Higuita si piazza stabilmente sui 30 metri della sua metà campo a fare il portiere-metodista. Del resto, lo farebbe già in condizioni normali, figurarsi quando la squadra deve portare l’assalto. Sicché quando l’azione riparte dalle retrovie, ecco che tocca a lui smistare il gioco. È lì che arriva l’incidente. È il minuto numero quattro del secondo tempo supplementare, e i difensori del Camerun scaraventano via la palla dal limite della loro area senza andare troppo per il sottile. L’esatto contrario dei colombiani, che invece cercano sempre di giocare la palla. E questa differenza sarà fatale. La lunga traiettoria plana sui quaranta metri colombiani, e lì c’è René che controlla e smista verso un difensore sulla propria destra. Ordinaria amministrazione, e la cosa finirebbe lì se il difensore facesse ripartire in avanti l’azione. E invece quello si prende paura del pressing camerunense e ridà palla a René. Che a quel punto si comporta come sempre: eccedendo in fiducia nei propri mezzi. Come fosse Franz Beckenbauer, o Ruud Krol, o Franco Baresi, stoppa la palla d’esterno intanto che si sbraccia per dare disposizioni ai compagni sul modo in cui disporsi per far ripartire l’azione. Ma tentando di fare due cose insieme finisce per far male quella più importante: controllare in sicurezza il pallone. Infatti pasticcia uno stop che pure sarebbe elementare, e nell’istante in cui realizza d’averla fatta grossa Roger Milla gli è già addosso. E i secondi che passano tra la rapina di pallone e il gol sono una pellicola che scorre interminabile, e s’estende ogni volta che ripassa dentro la memoria: il mito del calcio camerunense che s’invola verso la porta colombiana senza incontrare ostacoli, René che l’insegue goffamente e con sguardo rassegnato come un centometrista di normale talento costretto a fare da valletto a Usain Bolt, e tutt’intorno la platea che s’accende d’un eccitamento che va oltre il gol. La platea del San Paolo, e come in un cerchio concentrico quella globale, eccitate per aver visto realizzato il momento atteso da tutti: i detrattori che vedono in lui soltanto un fenomeno da baraccone e finalmente ne hanno clamorosa conferma, ma anche gli estimatori, cui il piacere di vedere un portiere capace di rompere gli schemi non fa velo nel tener conto di tutti i rischi che si prende. Una gigantesca platea del pallone che celebra il momento atteso e schernisce lui, che come un puntino sta laggiù al centro di tutto questo.

IN PACE COL MONDO

Mani ai fianchi solo contro il mondo. E sul viso l’espressione di chi con quel mondo ha già fatto pace. Vi aspettavate di vederlo costernato? Credevate che implorasse scusa per l’errore? Non avevate capito nulla. Per lui quell’attimo è liberatorio. Più di chiunque altro sapeva che prima o poi sarebbe arrivato. Che se anche Franz Beckenbauer, o Ruud Krol, o Franco Baresi hanno combinato almeno una volta in carriera un pasticcio come quello, perché mai non avrebbe dovuto combinarlo lui che per statuto dovrebbe essere abilissimo con le mani anziché coi piedi? Certo che prima o poi sarebbe accaduto, e altrettanto certo che le conseguenze sarebbero state disastrose. Perché un errore del tedesco, o dell’olandese, o dell’italiano, avvenivano in condizioni da avere almeno un ultimo argine che potesse rimediare: l’uomo di porta. E invece nel caso di René era egli stesso l’ultimo argine, e la porta una casa lasciata esposta alle razzie. Ebbene, se proprio volete saperlo, per René Higuita quel momento è una liberazione. Sapeva di doversi dare in pasto ai detrattori, e che intere schiere di cantastorie del pallone avevano pronto il papiro sul suo errore, soltanto in attesa d’essere pubblicato. E allora che venisse pure la catastrofe, da celebrare in una partita che vedeva la sua nazionale giocarsi l’appuntamento con la storia: l’accesso ai quarti di finale dei Mondiali. E invece 2-0 e partita chiusa, nonostante il tardivo gol dei colombiani che porta la sconfitta su una dimensione più accettabile. E da quel momento in poi, per René, l’avere visto finalmente la faccia truce di chi gli faceva la guerra è stato come mettersi definitivamente in pace col mondo.

René Higuita
René Higuita

IL RISCHIO È IL SUO MESTIERE

È una risposta sufficiente all’obiezione di chi sostiene che, in fondo, il colpo dello scorpione è roba di nessun valore perché messo al riparo dal rischio? Direi di sì. Per René Higuita il rischio è stato più che un mestiere, o una vocazione: era il calcio stesso. Un gioco da affrontare come una s da continua ai limiti. E sapete quanti sono i limiti che un portiere deve scontare? A partire dal doversene stare con nato dentro un rettangolo e una sequela di misure bislacche: 16,50 metri di lunghezza per 40,32 metri di larghezza, e a protezione di una porta larga 7,32 metri e alta 2,44 metri. Dentro quel box sei tutelato (e nemmeno così tanto), ma se ti azzardi a uscire da lì ti metti a rischio. Inoltre, al di là di quel perimetro smetti di potere usare le mani. Diventi come tutti gli altri, ma con meno capacità degli altri nel muoverti lungo quell’immensa parte di campo che rimane fuori dal box. Chi nel calcio fa il mestiere di portiere sa quale diversità ci si senta cucire addosso, e quanto sia frustrante vedere tutta quella gente che sfreccia libera in ogni dove mentre lui sta lì a guardia d’un lotto di terreno. Ecco, René Higuita non ha mai accettato questo modo di stare dentro il ruolo di portiere. Per un verso accettava i pregi del mestiere da guardapali: poter saltare, e volare, e rotolarsi a terra come non è concesso fare ai calciatori di movimento. Ma per un altro verso non tollerava i limiti imposti dall’essere un portiere. Perché non poter andare fuori dal box? Perché non andare a impostare l’azione sulla trequarti, avendo dei piedi decenti per farlo? Perché non puntare palla al piede l’avversario, e dribblarlo, anziché dover soltanto aspettare l’avversario che ti punta e prova a dribblarti? René proprio non capisce perché il portiere debba soltanto essere un giocatore di difesa. Per lui dovrebbe essere il primo attaccante della squadra, e per farlo deve scrollarsi di dosso l’aura della remissività. Quella che lo porta a dover soltanto subire gli assalti, e se va bene e sei bravissimo ne respingi quanti più riesci. Ma il saldo sarà sempre negativo. Perché prima o poi il gol arriva. E se anche dovesse arrivare il giorno in cui il Dio dei Portieri scendesse sui campi di calcio della Terra a parare tutto il parabile, non otterrebbe altro che lo Zero. Il pareggio col mondo degli attaccanti che percepisce se stesso come l’Esercito del Bene. Soltanto i gol danno numeri positivi, e un portiere lo sa. Mentre nel curriculum ogni altro giocatore di movimento vede segnati numeri positivi nella casella dei gol, a lui toccano numeri in doppia cifra accompagnati dal segno meno. E perché invece non segnare la parate? A volte più di venti a partita, ma trattate come cose insigni canti per chi costruisce la storia del calcio attraverso i numeri. E allora si capisce come mai René si ribelli. E si capisce pure come mai il colpo dello scorpione. Il portiere deve smetterla di difendersi e basta, facendo di sé stesso l’incarnazione dell’idea di riduzione del danno. No, il portiere deve attaccare. E sfidare chi porti l’offesa replicando con un’offesa e mezza. Prova a dribblarmi e io dribblerò te. Insegui un pallone per scaraventarlo alle mie spalle, e io invece di pararlo gli darò una manata per mandarlo verso la fascia laterale e ricominciare l’azione. Tira pure in porta e io non mi limiterò a parare, ma lo farò in modo da farti pentire d’averci provato. Il portiere deve andare all’assalto. E se questo comporta dei rischi, che siano i benvenuti.

UN PORTIERE IN FUGA

Poi i portieri hanno dovuto adattarsi a usare i piedi. Conseguenza dei cambiamenti di regolamento introdotti nell’estate del 1992, fra i quali spicca il divieto fatto loro di raccogliere con le mani il retropassaggio volontario di piede. Da lì il ruolo è stato mutato geneticamente. I portieri sono stati costretti a giocare il pallone come se fossero calciatori di movimento, e a venire fuori dall’area di rigore per supportare l’azione di squadra. Hanno dovuto imparare, e pure in fretta, quello che René faceva per scelta dacché aveva iniziato a giocare in porta. Ma questa che poteva essere la premessa per la liberazione del portiere dalle sue catene, e trasformarne l’identità in senso attaccante, non ha determinato il cambiamento che poteva. Quello del portiere è rimasto un ruolo difensivo, per di più snaturato. Ha perso le sue caratteristiche originarie senza riuscire a trasformarsi in qualcosa di decisamente diverso. René, mani ai fianchi come quel pomeriggio a Napoli dopo il secondo gol del Camerun, ha guardato da dentro il campo quell’evoluzione senza rivoluzione. Forse un po’ sconfortato, ma senza alcuna malinconia. Non si è mai aspettato che i suoi colleghi lo seguissero nelle sue fughe fuori dall’area di rigore, né si è mai messo in testa di capeggiare una ribellione. Troppo individualista per prendersi la responsabilità della leadership. E in fondo certi gesti di ribellione è meglio farli in solitario. Per questo non ci sarà mai più un altro portiere come lui, né un altro calciatore.